Un punto per Fico nella lunga partita contro Di Maio
I duellanti 5 Stelle Il presidente della vigilanza Rai ufficialmente non esulta, ma è stato tra i primi a dire che l’accordo sulla legge elettorale non poteva dirsi chiuso
I duellanti 5 Stelle Il presidente della vigilanza Rai ufficialmente non esulta, ma è stato tra i primi a dire che l’accordo sulla legge elettorale non poteva dirsi chiuso
La parte dell’emiciclo occupata dai grillini, ieri mattina era attratta da due calamite, due facce che spiccavano su tutte. Da una parte il gran cerimoniere del «patto a quattro» per il Movimento 5 Stelle, Luigi Di Maio. Dall’altra Roberto Fico, che assieme a Paola Taverna e pochi altri aveva sollevato dubbi sulla nuova legge elettorale. Di Maio e Fico sono i duellanti del M5S, i fratelli coltelli costretti a nascondere le divergenze in pubblico in ossequio alle leggi non scritte che prevedono che nessuna rottura interna al Movimento 5 Stelle esca dalle chiuse stanze e dalle chat blindate.
Due storie parallele. Tutto comincia quando prendono parte al direttorio, filtro posto tra Grillo e Casaleggio e la base grillina. Dentro al Movimento 5 Stelle notano la sproporzione. Parlamentare: su cinque membri tutti deputati e neanche un senatore. E geografica: il solo Alessandro Di Battista proviene da Roma, gli altri tutti dalla Campania. Ridotta all’osso, la dialettica dentro al direttorio a maggioranza flegrea si svolge tra i due che ricoprivano cariche istituzionali. Da una parte il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio da Pomigliano d’Arco, faccia fresca di rasoio e capello scolpito. Dall’altra il barbuto presidente della commissione di vigilanza Rai, Roberto Fico da Napoli, che avvicinato al M5S delle origini, ormai dieci anni fa, prendendo parte alle campagne su acqua e rifiuti. È il periodo in cui Beppe Grillo si accompagna sotto il Vesuvio al missionario comboniano Alex Zanotelli.
Luigi Di Maio, intanto, segue il percorso del grillismo nella sua Pomigliano. Fico nel 2011 nel corso di un dibattito al Festival del giornalismo di Perugia parla ancora da semplice cittadino impegnato in un meetup: fa professione di tecnoentusiasmo grillino, spiegando a uno stupito Ben Brandzel, uno dei social media strategist di Obama, che grazie alla rete siamo entrati in una nuova era in cui tutto è finalmente possibile. A Di Maio, in compenso, viene persino dedicata una biografia, scritta dal suo concittadino (ed ex compagno di scuola) Paolo Picone, si racconta di quando il futuro aspirante premier venne eletto rappresentante d’istituto facendo un patto con professori e preside: niente più scioperi e occupazioni.
Le divergenze tra i due si palesano quando, sotto il fuoco incrociato delle vicende romane legate alla sindaca Virginia Raggi, il direttorio si squaglia. Di Maio, che di quella giunta è il garante, deve spendersi per difendere l’amministrazione nella bufera e salvarsi la faccia. Fico fa esattamente al contrario, diviene portavoce dei dubbi, manifesta le impazienze che arrivano dalla truppa grillina. Risale ad allora il marchio di «ortodosso» che a quest’ultimo viene attribuito, quasi a distinguerlo dall’atteggiamento più tattico e calcolatore che caratterizza Di Maio. Il quale, per ironia della sorte e segno ulteriore della stranezza delle cose pentastellate, è in realtà più allineato di Fico all’ortodossia della linea prodotta da Grillo e Casaleggio. Tanto che dai vertici più volte è arrivato il diktat: «Non tirare troppo la corda, a tutto c’è un limite». Adesso è il primo a mascherare la soddisfazione per come sono andate le cose in aula, indossando la faccia dell’indignazione.
La regola è sempre quella: ribaltare le contraddizioni interne contro gli avversari. Il gioco delle parti si rinnova. Luigi Di Maio si incupisce per il pesante stop inferto alla legge elettorale che lui stesso, aveva dovuto difendere davanti a Grillo, previa sponda di Davide Casaleggio. Si vedeva candidato premier, volto istituzionale e artefice di un accordo che avrebbe garantito decine di seggi in più al Movimento 5 Stelle.
Roberto Fico ufficialmente non esulta, ma è stato tra i primi a dire che l’accordo sul modello tedesco che pareva blindato non poteva affatto dirsi chiuso. Si prende la soddisfazione di giocare al gatto col topo col Pd, difendendo il diritto del M5S di presentare correttivi alla testo, rispedendolo in commissione. Ma quando parla a Renzi guarda con la coda dell’occhio Di Maio. «Ritirare gli emendamenti? Non intervenire in aula su una legge di interesse nazionale? Impossibile».
La guerriglia parlamentare di ieri segna un punto a favore di Fico, da oggi la partita dei duellanti ricomincia.
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