Cristina Piccino
PARIGI
Su «i tetti di Parigi» c’è la luce alta della primavera anche se il vento gelato che scompiglia i piani dei turisti pasquali fa pensare più a un profondo inverno. Le giacchine a vento colorate dei ragazzini in gita scolastica si inseguono sul piazzale del Centre Pompidou: Cinéma du Reel si annuncia tra le mostre e i libri di Guy Debord - L’art de la guerre la mostra sui situazionisti si è appena aperta. Edizione numero 35 con la nuova direzione di Maria Bonsanti, già tra le anime del fiorentino festival dei Popoli, e qualche novità nell’allestimento per rendere lo spazio «festivaliero» un po’ più festivo e accogliente. Via vai tra i tavolini del bar «temporaneo», installato solo per il festival, le sale, i divanetti nella grande hall al piano -1 del Centre. La videoteca per gli addetti ai lavori è invece ospitata dalla Biblioteca del Pompidou, un altro mondo, anzi quasi una città dove ai riti degli studenti, caffè alla macchinetta, sigaretta in terrazza, chiacchiera amorosa si mescolano le giornate dei senza casa che vivono – letteralmente - nell’emeroteca prendendo note infinite o semplicemente dormendo. O ancora davanti agli schermi televisivi accesi sulle news internazionali dove ci sono solo maschi: maghrebini, africani, bulgari una schiera di uomini divisi a gruppi.
Cosa ci raccontano invece le immagini del festival? Il pianeta, visto che si tratta di «cinema del reale», frammenti di presente distillati spesso in piccole storie quotidiane che racchiudono però una dimensione globale. Le catastrofi ambientali, l’esilio, la violenza sui paesaggi umani e naturali come in Materia oscura di Martina Parenti e Massimo D’Anolfi indagine «diretta» sul poligono del Salto di Quirra in Sardegna dove da cinquant’anni le multinazionali delle armi sperimentano i loro prodotti devastando il territorio (animali e uomini muoiono di malattie terribili) con l’uso anche di sostanze proibite tipo l’uranio impoverito C’è una guerra insomma in Italia e noi non lo sappiamo …
E ancora persone/personaggi la cui storia è (forse) un universo a parte, la violenza delle metropoli, la marginalità. Rispetto a un’idea «expanded» del documentario che si è affermata a livello internazionale nell’ultimo decennio, il festival parigino sembra preferire un’immagine documentaria più «tradizionale», in cui l’uso di formati diversi, lo sconfinamento nelle arti visive, la sperimentazione «politica» dei supporti (pensiamo all’uso della pellicola) sono meno presenti i– qualche nome: da Ben Rivers a Sylvain George. E questo sia nella dimensione più intima, quasi diaristica di alcuni film, che in quella narrativa.
Alla prima appartiene Casa di Daniela De Felice, un racconto dichiaratamente alla prima persona che al suo interno però prova a comprenderne altre. I ricordi familiari, le voci della madre, del fratello della regista, l’esperienza comune eppure diversa di un lutto. La parte dell’io ha la forma dell’animazione, quella della ricerca comune è soprattutto un dialogo la cui protagonista principale davanti alla regista è sua madre, infatti è nella vecchia casa dove sono cresciuti lei e il fratello che si ritrovano forse per l’ultima volta visto che l’hanno appena venduta. 
Tra quelle mura sono cresciuti, avevano festeggiato il Natale unendo le culture del nord con la tradizione napoletana paterna di struffoli e capitone condivisi con i vicini. Lì la regista aveva ricevuto la sua prima macchina da presa con cui il fratello aveva filmato il padre davanti a un juke-box. Quel padre che era morto un estate, tra quelle mura, malato, quando lei che era appena rientrata dal Belgio dove studiava. Ed ecco che il vago sapore di madeleine tra infanzia e adolescenza, prende man mano che si va avanti la forma di una quasi investigazione dell’anima. Chi ha staccato la spina al padre morente? La mamma è convinta di averlo fatto lei, per amore anche se poi l’idea di quel gesto non l’ha mai più abbandonata. Ma sia il cineasta che il fratello sono sempre stati convinti che è stato quest’ultimo a liberare il padre dal rantolo doloroso dell’agonia. Casa è finora il film più intenso visto qui per quella sua scommessa (riuscita) che è cercare alla memoria familiare una corrispondenza per immagini. E non è questione di singole scelte, archivi, fotografie disegni, presente ma di una poetica sensibile e commuovente priva di retorica, piena di emozione. In cui scorrono gli istanti felici dell’infanzia, la noia estiva dell’adolescenza quando all’improvviso tutto diventa troppo piccolo, la dolcezza leggermente aspra di ritrovarsi pure nella distanza, i conflitti che appaiono sbiaditi. L'inafferrabile della vita e il pudore del dolore nel tempo che passa sono la materia del film, che la regista - complici nell’avventura Alessandro Comodin (L’estate di Giacomo) al montaggio insieme alla stessa De Felice e Mathieu Chhatellier alla fotografia - sa rendere emozione visibile e gesto di cinema. 
Are you listening è girato nel Bangladesh tra gli sfollati delle zone costiere a cui il mare ha distrutto le terre, le case, la vita. Una giovane coppia con il piccolo bimbo prova a resistere nella speranza di tornare un giorno all’esistenza di prima. Il film di Kamar Ahmad Simon è il racconto di questo quotidiano in cui gli stati d’animo si inseguono toccando ogni sfumatura. Come convivere con questa precarietà dell’essere al mondo, dipendenti dagli aiuti, in baracche arrangiate che ogni soffio di vento può spazzare via. Voglio partire con il cameramen dice un bimbetto sveglio, l’amico del cuore di Rahul il figlio dei protagonisti. Rahki era maestra prima della catastrofe, e continua a insegnare al figlio e agli altri a scrivere e a disegnare. È molto bella e col marito Soumex litiga spesso. Vorrebbe andare in India e lui le dice mai, è solo un miraggio …
La macchina da presa non si nasconde, ne sentiamo anzi la presenza negli sguardi dei protagonisti, fino all’intervento diretto quando qualcuno risponde ai bambini, o in quell’ironia con cui le donne giocano tra di loro parlando degli amori prima del matrimonio. Ma è proprio questa presenza, la ricerca di una relazione che il film ricerca condividendo un vissuto più che vampirizzarlo, nella cui esperienza si manifestano anche l'assenza del governo, l’impotenza delle persone, i paradossi di una burocrazia che prevede in supporto alimentare solo per gli sfollati quando anche chi come i protagonisti non era povero lo è diventato. Eppure nonostante tutto i tre rivendicano per se stessi i loro istanti di allegria, l’affetto, il gioco, la voglia di fare festa. È anche questo un modo per resistere mentre chissà se quella diga sarà mai ricostruita. Ma intanto Rahki insegna ai bambini a disegnare un mango: anche questo è una piccola traccia di memoria.