Italia

Un premio all’accoglienza

Antonio Silvio Calò, professore di storia e filosofia, vince il Premio cittadino europeo. Ha aperto la sua casa a un gruppo di profughi sopravvissuti al naufragio Esattamente tre anni fa, i sopravvissuti del naufragio di Lampedusa scendevano dal bus: due profughi dal Gambia e altrettanti da Nigeria e Ghana entravano nella casa di Povegliano, ospiti di […]

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 10 giugno 2018

Esattamente tre anni fa, i sopravvissuti del naufragio di Lampedusa scendevano dal bus: due profughi dal Gambia e altrettanti da Nigeria e Ghana entravano nella casa di Povegliano, ospiti di una famiglia più che coraggiosa. E sempre l’8 giugno arriva la lettera ufficiale firmata da Sylvie Guillaume, socialista francese, vice presidente dell’Europarlamento, a capo della giuria che dal 2008 assegna un riconoscimento prestigioso.

Antonio Silvio Calò, 57 anni, professore di storia e filosofia al liceo Canova, ha vinto il Premio Cittadino europeo 2018 che gli verrà consegnato il 9 ottobre a Bruxelles come alla Fondazione Bap onlus, a Paola Scagnelli e don Virginio Colmegna. «Mi piacerebbe poterci andare con mia moglie Nicoletta e uno dei sei ragazzi…» confessa.

A caldo, il suo commento è diretto, sintomatico, naturale: «Suonino le trombe mediatiche, speriamo che sveglino le coscienze. Non lo dico per me, ma per il segnale che è stato lanciato da qui: l’accoglienza rimane, vale sempre, è universale. E l’Italia non è soltanto quello che abbiamo sentito in campagna elettorale. Voglio ringraziare tutti, a cominciare da mia moglie e dai nostri quattro figli».

Una storia speciale, nel cuore della Marca lighista. Una bella sfida, nel solco dell’umanità. Una lezione di “filosofia europea” che vale per tutti.

Comincia con un altro naufragio a Lampedusa: Calò è davanti alla tv in famiglia. Insieme decidono di aprire casa ai profughi. «Sono andato in prefettura a Treviso il 20 o 21 aprile, convinto che non fossimo i soli. Il funzionario mi ha guardato come se fossi un marziano. Non c’era nessuno in tutto il Veneto, e forse in Italia, disposto a cimentarsi con l’accoglienza familiare diretta».

L’8 giugno 2015 squilla il telefono intorno a mezzogiorno e in serata il bus partito dalla Sicilia si ferma nel comune a 11 chilometri da Treviso. «Sono scesi con un sacchetto nero dell’immondizia dove c’era un cambio di vestiario. Tutto il quartiere si era affacciato, con sguardi in gran parte ostili. Le prime due settimane sono rimasti chiusi in casa…».

Ma la famiglia Calò non si lascia intimidire. Anzi. Organizza una vera e propria rete capace di garantire ai sei africani un banco nella scuola media, lezioni di italiano a casa, sostegno e accudimento. C’è Valentina, mamma di due figli, che ha appena perso il lavoro, assunta a tempo determinato da una coop. Poi Giovanni, che aveva insegnato l’italiano negli Usa. La psicologa Giulia che arriva ogni martedì pomeriggio. E il pensionato Valter che offre il suo orto da coltivare.

«Ci sono due elementi fondamentali nella società di oggi: l’egoismo e la solitudine. Combatterli è possibile solo ricreando uno spirito comunitario» afferma Calò, che non si sottrae ai conti. «Il bilancio è molto semplice: 30 euro a persona al giorno significavano 5.400 euro al mese. Io il bilancio di sei persone in casa ce l’avevo già e con Nicoletta quando arriviamo a 1.750 a testa è tanto. Non prendiamoci in giro: ci sono margini per l’arrivare al meglio dell’accoglienza in tutti i sensi». Compreso l’avviamento al lavoro: almeno sei mesi di tirocinio con l’Ascom che garantisce la certificazione: «Abbiamo messo due condizioni fondamentali alle aziende. La prima è che il tirocinio non andasse a portare via alcun tipo di possibilità a un italiano. E la seconda era che non andasse a occupare spazi del tipo cassintegrati o disoccupazione. E così nel giro di un mese, tutti i ragazzi sono partiti. Due come lavapiatti perché nessuno voleva farlo. Tre all’interno di una coop biologica: sporcarsi le mani con la terra, piegati otto ore, non interessava. L’ultimo è entrato in una falegnameria: lì c’era qualcuno che proprio non accettava la sua presenza, così è passato in una tipografia. Alla fine, tutti e sei hanno avuto un contratto di assunzione a tempo determinato».

 

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