L’espressione «Caos a Kassel» è emersa in seguito alla tempesta di accuse di antisemitismo che si è abbattuta sull’evento artistico Documenta 15 (18 giugno – 25 settembre) che si svolge ogni cinque anni a Kassel. Esposizione di fama mondiale delle arti contemporanee, per la quindicesima edizione la direzione artistica è stata affidata al collettivo indonesiano ruangrupa. Le accuse sono iniziate già prima dell’apertura ufficiale.

La presenza del collettivo palestinese The Question of Funding è stata segnalata per attirare l’attenzione su un Paese in cui una recente legge mette sostanzialmente al bando qualsiasi critica allo Stato israeliano, trasformando il sostegno alla causa palestinese e al BDS in un crimine federale. Successivamente, nel murale del collettivo indonesiano Taring Padi è stata individuata una figura caricaturale antisemita di un maschio ebreo, che ricorda gli stereotipi che circolavano in Europa all’inizio del XX secolo, e in particolare nella Germania nazista. Il murale è stato ritirato e ha portato alle scuse del gruppo. Sulla scia di queste turbolenze, ora si parla di controllare tutte le opere di Documenta per verificare la presenza di antisemitismo.

A PARTE LA PARANOIA politica in Germania, per ovvie ragioni storiche, l’intera questione ha aperto una serie di archivi molto più profondi in cui razzismo, arte ed estetica si combinano in una configurazione critica che sta trasformando l’attuale Documenta in uno degli eventi artistici più significativi degli ultimi decenni. La maggior parte dei partecipanti sono collettivi. Non sono i tipici partecipanti del circuito artistico internazionale. O meglio, l’aumento degli inviti di artisti non occidentali a partecipare alle biennali e alle mostre d’arte globali si è trasformato in una massa critica. Invitando collettivi, invece che singoli artisti riconosciuti a livello internazionale (ce ne sono alcuni, ma sempre associati ai sud indigeni del mondo), ruangrupa ha insistito sulla raccolta di pratiche collettive per creare un lumbung. Lumbung è un concetto indonesiano che indica il surplus raccolto nel granaio del riso per la distribuzione comunitaria. Questo eccesso artistico non pianificato solleva interrogativi profondi che interrompono il consenso istituzionale che dirige il mondo dell’arte moderna. Gli ospiti rimangono e desiderano proporre le proprie ricette e agende.

I collettivi artistici, provenienti in gran parte da località non occidentali, forniscono e provocano interazioni dinamiche ed espandono ecosistemi che portano altri a partecipare e a condividere le risorse. La raccolta continua di pratiche, eventi e processi non è mai statica. Laboratori, discussioni, dibattiti, cucina, danza, stampa, sauna, caffè gratuito dal Vietnam e ascolto di musica che arriva dalle rive del fiume Niger, fanno sì che Documenta 15 sia sempre in movimento. Emerge una rete tentacolare che si estende ben oltre gli edifici e gli eventi di Kassel, dell’Europa e della gestione occidentale dell’arte contemporanea. Gli Archives des luttes des femmes en Algérie sono accanto agli Asia Art Archive e ai Black Archives dei Paesi Bassi. Camminando nei sottopassaggi del centro di Kassel, i suoni e i segni del Black Quantum Futurism ci invitano a tagliare e ridistribuire il tempo nelle temporalità della giustizia sociale e storica, mentre la possibilità, o meglio l’impossibilità, dell’arte a Baghdad è catturata dai video allucinanti di Sada (regroup).

L’ESPOSIZIONE che coinvolge più di 50 collettivi e 1500 artisti propone una straordinaria scomposizione, interrogazione e ridistribuzione di pratiche artistiche che violano le pareti delle gallerie, i regimi curatoriali e il feticismo degli oggetti artistici sia nel museo che nel mercato.
Se si volesse annunciare tale scenario in termini più fanoniani, questo abbandono dell’Europa e del suo limitato umanesimo è un’interrogazione delle pretese universalistiche di quest’ultima; e non solo in termini artistici. Se torniamo alle accuse dell’antisemitismo, inizialmente scatenata dai gruppi tedeschi di destra (che ormai sono tutti filo-israeliani, avendo spostato il loro odio sui musulmani e sull’Islam) e poi amplificata dalla stampa nazionale, le pratiche artistiche all’opera a Kassel offrono in realtà un altro percorso nella tempesta.
La questione, troppo grande perché Documenta 15 possa rispondere da sola (e perché dovrebbe?), è il senso di colpa tedesco ed europeo per la Shoah che (a partire dagli inglesi) è stato scaricato sul Medio Oriente. Questo permette all’Europa di considerare risolta la «questione ebraica» attraverso il sostegno incondizionato allo Stato di Israele. Naturalmente, non ha risolto nulla, e certamente non le gerarchie razziste – essenziali per la modellazione coloniale della modernità occidentale – che storicamente hanno affinato il loro linguaggio e la loro violenza nei paesi europei nel corso di secoli di antisemitismo.

Queste storie più profonde contestano la riduzione della questione del razzismo (e della sua censura) semplicemente all’antisemitismo. Quest’ultima è una lettura molto provinciale – sì, siamo consapevoli della brutale specificità dell’antisemitismo in Germania e in Europa – della violenza strutturale del razzismo come dispositivo coloniale a livello planetario. Aimé Césaire lo ha spiegato molto bene più di mezzo secolo fa in Discorso sul colonialismo: lo shock dell’Europa per l’Olocausto risiedeva nel fatto che le pratiche coloniali di genocidio erano state applicate per la prima volta sul suolo europeo contro una parte della sua stessa popolazione bianca e autoctona. L’assunzione di questa responsabilità, che sta emergendo sempre di più tra gli artisti di Documenta 15, implica un ribaltamento del tavolo, partendo dall’antisemitismo (inizialmente inaugurato come accusa a The Question of Funding per il fatto di essere palestinese) per entrare in uno spazio più profondo ed esteso che non è solo controllato dalle preoccupazioni occidentali.
Nelle sue manifestazioni artistiche ed estetiche, tratte da pratiche e linguaggi sviluppati nel cosiddetto «Sud globale», ciò che sta accadendo a Kassel ha spinto il tempo fuori cardine. La linearità del «progresso» liberale traballa nello slittamento verso una svolta più profonda che registra il razzismo come dispositivo di potere planetario, invece di semplicemente una patologia locale da curare. La miccia ardente dell’estetica e dell’etica ha acquisito un’urgenza fresca ed energica nel potenziale di combustione planetaria.

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Iain Chambers fa parte del collettivo «Jimmie Durham & A Stick in the Forest by the Side of the Road» che è stato invitato a partecipare a Documenta 15