Un popolo immortale nelle pagine di Vasilij Grossman
Frammenti Roberto Calasso volle nel catalogo Adelphi tutta l’opera dello scrittore russo, in edizioni ottimamente tradotte e perfettamente curate
Frammenti Roberto Calasso volle nel catalogo Adelphi tutta l’opera dello scrittore russo, in edizioni ottimamente tradotte e perfettamente curate
Che grande scrittore è stato Vasilij Grossman, uno dei più grandi dello scorso secolo, degno erede di Tolstoj e della grande letteratura russa di «prima dei codici». Adelphi ne pubblica tutta l’opera un po’ inaspettatamente, grazie a Calasso e – credo – su indicazione e sollecitazione di Elsa Morante, che considerava Vita e destino ancora nell’edizione «provvisoria» di Jaca Book un capolavoro assoluto. Ricordo bene una visita di Calasso a Elsa nell’ospedale in cui ella sarebbe morta non troppe settimane dopo, in cui, vedendo la fatica con cui manovrava nel suo letto di malata quel grosso librone, fece dividere il libro in sedicesimi numerati, maneggevoli.
È stato Calasso a volere nel catalogo Adelphi tutta l’opera di Grossman, in edizioni ottimamente tradotte (questa da Claudia Zonghetti) e perfettamente curate, ed è giusto renderne merito a una casa editrice che tanti giudicavamo grande ma molto borghese, non «di sinistra». Ed è coerente con la sua scelta di pubblicare tutta l’opera di Grossman, anche l’edizione di questo romanzo di guerra del 1942, rivisto dall’autore nel ‘45. In piena guerra e in pieno nell’era di Stalin, che Grossman non cita altro che in un documento militare nell’ultima pagina del libro ma che non può non incombere su questa narrazione – bellissima – della grande guerra anti-nazista.
Siamo in tanti a esserci chiesti prima o poi quale fosse il motivo più profondo del nostro apprezzamento per i romanzi che raccontavano la guerra (tanti gli americani e gli inglesi, per la Seconda mondiale, ma tanti anche gli italiani, da Malaparte e Revelli, e su opzioni diverse). E certamente c’era in questa fascinazione qualcosa di losco e di primitivo – diciamo pure il gusto dell’avventura, del rischio, dello scontro fisico tra soldati, della scoperta delle diverse strategie militari, dei «nostri» contro i «loro». Del racconto della violenza. C’è ancora in buona parte in questo romanzo (Il popolo è immortale, pp. 286, euro 20,00) – che ci conferma, nella sua giovinezza (nel ‘42, data della prima stesura, era ancora nei suoi trent’anni) delle grandi qualità dell’autore, ma riportandoci indietro nel tempo, ai giorni di una guerra che anche l’Italia – i nostri genitori e i nostri nonni – ha vissuto in modi drammatici e nell’incertezza degli esiti.
È questa incertezza a dare vita e forza al racconto della resistenza di un esercito e di un popolo a un’invasione, alla conoscenza di un esercito dalla parte degli invasi, fatto da invasi. È dunque in una sofferta armonia tra i contadini e i militari, che dal mondo contadino soprattutto provengono, che il racconto snoda i suoi confronti, accentuando con pacata forza e serenità il confronto tra i militari e il loro popolo, per la difesa della terra comune. Sono i militari al comando i primi protagonisti della violenza che è giocoforza presente in ogni romanzo di guerra e viene giustificata quando proviene dalla parte giusta, quella degli invasi. E se Stalin non è mai direttamente nominato nel romanzo (che tuttavia già dal titolo sembra accettarlo), è proprio perché la guerra – la difesa da un’invasione – lega tra loro dirigenti e sottoposti in una comunanza non più riproducibile, ma che esisteva nonostante tutto dagli anni della Rivoluzione.
Un utilissimo e bellissimo saggio di contorno di Robert Chandler e di Julija Volochova accompagna il romanzo e ne racconta la genesi e le fortune, a conferma della grandezza e dell’autonomia del suo autore. E delle virtù di un popolo, che è, quello sì, immortale nella sua sofferenza, nella sua ribellione, nella forza della sua solidarietà con un esercito fatto, come sempre ma qui con la coscienza piena di esserlo, di popolo.
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