Un politico “senza fortuna”
Giacomo Matteotti Una figura rilevante di leader e intellettuale socialista, relegata però ai margini della storiografia del movimento operaio. Un estratto dalla prefazione all’ultimo volume delle sue opere pubblicate da Pisa University Press con la cura di Stefano Caretti.
Giacomo Matteotti Una figura rilevante di leader e intellettuale socialista, relegata però ai margini della storiografia del movimento operaio. Un estratto dalla prefazione all’ultimo volume delle sue opere pubblicate da Pisa University Press con la cura di Stefano Caretti.
Il capitolo della sfortuna di Matteotti si basa su ragioni politiche e culturali più complesse, che forse è utile affrontare partendo non dalle numerose banalizzazioni che diverranno correnti, ma dal fraintendimento più illustre e significativo, da cui trarranno origine molte semplificazioni successive. Facciamo riferimento al profilo di Matteotti scritto da Piero Gobetti, da molti punti di vista una pietra miliare nella “fortuna” di Matteotti: perché è un saggio di alta scrittura, scritto da un grande intellettuale, e perché sarà per moltissimi anni praticamente l’unico strumento a disposizione del lettore italiano.
Riletto oggi ci rendiamo conto di trovarci di fronte a un Matteotti «gobettizzato», reso partecipe a sua insaputa della «rivoluzione liberale» che il giovane intellettuale torinese auspicava. Per Gobetti muovendo da un «fondo solido di virtù conservatrici e protestanti nacque il sovversivismo di Matteotti e nacque aristocratico per la solitudine». La sua formazione avvenne attraverso «i tormenti dialettici del suo intemperante individualismo», con l’uso di «ironia perversa e spietata». Notiamo qui un’aggettivazione tutta interna alla narrazione che Gobetti va costruendo attorno alla storia d’Italia (protestante, individualista, aristocratico) ma che è completamente estranea alla personalità di Matteotti, il cui «sovversivismo» sembra giustificabile solo sulla base di motivazioni esistenziali che prescindono dalle convinzioni politiche che lo animarono. E infatti la cura maggiore di Gobetti sembra quella di scindere Matteotti dal mondo che gli fu proprio, in pagine che trasudano disprezzo per la tradizione del socialismo italiano: quella «atmosfera di loquacità provinciale, di fiera delle vanità e di consolazioni da desco piccolo borghese… con l’abitudine ai convegni che terminano in una formidabile pappatoria». Separato anche dalla tradizione riformista, con la quale non condivise «la complicità nel protezionismo, anzi non esitò a rimanere solo col vecchio Modigliani ostinato nelle battaglie liberiste… scuola di autonomia e di maturità politica concreta nella sua provincia». Nel distaccarlo dal mondo che fu il suo, il Matteotti di Gobetti diviene addirittura «socialista persecutore di socialisti», stravolgendo la dialettica pur vivacissima che era presente nell’universo del socialismo italiano.
Matteotti è sì giudicato «combattente generoso» contro la guerra, poiché «non disertava, non si nascondeva, accettava la logica del suo “sovversivismo”, le conseguenze dell’eresia e dell’impopolarità», ma in questo viene contrapposto alla «condotta degli uomini tipici del pacifismo italiano, pavidi e servili per non essere presi di mira, nascosti e silenziosi nei comandi e negli impieghi, emuli dei nazionalisti nel rifugiarsi nei bassi servizi».
Al ritratto si aggiungono alcune forzature culturali, che devono servire anch’esse a nobilitare il personaggio rispetto al banale materialismo dei socialisti: «il suo marxismo non era ignaro di Hegel, né aveva trascurato Sorel e il bergsonismo. È soreliana la sua intransigenza».
Il mondo della Seconda Internazionale
La conclusione del saggio di Gobetti è certamente ancor oggi toccante, perché rivolta a una vittima della violenza fascista da parte di un giovane che seguirà la stessa sorte: «la generazione che noi dobbiamo creare è proprio questa, dei volontari della morte per dare al proletariato la libertà perduta». Ma anche qui a ben vedere c’è un gusto letterario, vagamente torbido, che è del tutto estraneo alla personalità di Matteotti, un politico che combatteva con risolutezza la sua battaglia politica senza estetizzarla e rifuggendo dalle pose eroiche.
C’è indubbiamente uno scarto culturale che separa Matteotti dalla formazione di Gobetti: il suo essere immune dalla fascinazione delle avanguardie del primo Novecento, da spiritualismi, idealismi e irrazionalismi che conquistarono la scena mentre declinava prima e poi andava in frantumi il vecchio paradigma del positivismo ottocentesco che aveva unificato le élites della cultura europea. Un nuovo humus che fu vitale e stimolante per alcuni, torbido e limaccioso per altri, e al quale Matteotti rimase estraneo, anche nel linguaggio, fatto di concretezza e razionalità nell’argomentare. Si potrebbe dire che il suo mondo ideale rimase quello della Seconda Internazionale, ma è un’affermazione che può esser sostenuta solo con alcune rilevanti e decisive precisazioni. In primo luogo, il Matteotti antimperialista e anticolonialista supera senza incertezze quello che fu uno dei punti di maggiore ambiguità di quella tradizione, che non fu estranea alla catastrofe dell’internazionalismo socialista nel 1914.
Sappiamo ora, attraverso i contributi pazientemente raccolti in queste Opere, che Matteotti aveva anche nettamente superato in tema di diritto (che fu il principale e più assiduo interesse culturale a fianco della politica) le asprezze e le ingenuità della tradizione (non eccelsa) del positivismo socialista italiano, tra misurazione di crani e razzismi latenti, giungendo a condividere e sviluppare i principi di eguaglianza e di garanzia della persona che erano propri della tendenza più illuminata della giurisprudenza del suo tempo. Allo stesso modo, i suoi studi di economia testimoniano un superamento delle molte semplificazioni dottrinarie insite nella tradizione ottocentesca del socialismo e un’attenzione alle forme concrete della vita economica e associativa che sostanzieranno la sua attività di amministratore e di politico. Riassumere questo sotto l’etichetta del «liberismo», come fa Gobetti, è uno dei tanti tributi alla cultura antigiolittiana che fu propria del giovane liberale e di tutte le avanguardie dell’inizio di secolo in Italia, laddove si trattava in realtà di un anticapitalismo non demagogico e predicatorio, ma attento anche alle complicità e ai cedimenti nei quali il giovane movimento socialista poteva incorrere, nel costruire dal basso una società alternativa di eguali che era l’essenza del riformismo inteso da Matteotti.
A questo fraintendimento iniziale si sommano nel corso del tempo gli equivoci di carattere direttamente politico, e in particolare si innestano le dispute nominalistiche che accompagneranno la sua «fortuna» anche nel secondo dopoguerra e che contribuiranno a circoscriverne la dimensione a quella esclusiva del martirio, abbagli a lungo ricorrenti nella memoria socialista, tendenti a definire Matteotti sulla base del significato assunto nel tempo e nel divenire della lotta politica dalle formule e dalla terminologia.
L’incomprensione da parte comunista di un Matteotti «pellegrino del nulla», secondo la definizione gramsciana, proseguiva fino agli anni Settanta inoltrati, quando personalità pur fra loro molto diverse come Pietro Secchia e Giorgio Amendola tornavano a rimproverare a Matteotti un atteggiamento di rassegnazione di fronte al fascismo, attribuendogli quel «coraggio della viltà», ritenuto il simbolo del cedimento socialista di fronte al regime trionfante. Non solo era sbagliato il giudizio di fondo, che rovesciava la colpa di una sottovalutazione della violenza fascista che fu propria di tutto il movimento operaio e dalla quale il solo Matteotti fu immune, ma ci si rifaceva in forma impropria a un celebre discorso del 10 marzo 1921 alla Camera dei deputati, che si concludeva in realtà con un ammonimento rivolto in tono abbastanza minaccioso al governo, considerato inerte o complice rispetto a violenze che non sarebbero più rimaste senza risposta.
Un riformismo di classe
È invece un riformismo, quello di Matteotti, che nel breve periodo della sua attività politica (quattordici anni in tutto) non si mostra in nulla arrendevole o conciliante, e che non concede nessuna apertura di credito alla classe dirigente, che pone anzi costantemente sotto accusa nella sua attività quotidiana di organizzatore e di polemista.
Matteotti aveva gioito delle rivoluzioni in Russia, come tutti i socialisti italiani, ma ben presto sarebbe diventato immune dal fascino della rivoluzione bolscevica, e la sua diffidenza era basata sulla constatazione concreta e realistica dell’impossibilità di costruire il socialismo «senza l’autonomia e l’autogoverno delle classi lavoratrici». Malgrado questo, ancora nel 1920 sosteneva il diritto all’adesione da parte dei socialisti alla Terza Internazionale, mantenendo autonomia, senza mutare nome e senza espulsioni di riformisti. Si spinge anche a giustificare in Italia l’eventualità di una dittatura transitoria del proletariato, con garanzia dell’autogoverno delle masse lavoratrici, purché non divenga dittatura di pochi sul proletariato sul modello bolscevico, e nella consapevolezza che la costruzione del socialismo impone tempi lunghi e «un’opera profonda di trasformazione ed educazione sociale».
L’elemento prevalente della polemica con i comunisti verte sull’indebolimento autolesionistico che il movimento operaio italiano si è inflitto attraverso la sequenza di scissioni cui ha dato vita. E nel proprio dibattito interno, del resto, gli stessi comunisti apparivano consapevoli del danno apportato dalla forma specifica della «scissione di minoranza» sancita a Livorno: «il più grande trionfo della reazione» lo definiva Gramsci in privato («fummo, senza volerlo, un aspetto della dissoluzione generale della società italiana»).
C’è soprattutto, da parte di Matteotti, insofferenza per le diatribe interne del socialismo italiano, per l’astrattezza e il dottrinarismo di quei dibattiti, e c’è addirittura sdegno di fronte a quel vano discutere di riforme e rivoluzione, di adesione o meno all’Internazionale di Mosca, mentre intorno la casa brucia. «Mi vergogno che i nostri Congressi dedichino tutto il loro tempo a queste diatribe; che non si pensi ad altro che a scissioni», scriverà alla vigilia della marcia su Roma.
Dai suoi ricordi del confino siciliano negli anni della guerra traeva l’immagine, in una lettera alla moglie Velia dell’estate del 1923, del fascismo che come la lava dell’Etna «procede lentamente e inesorabilmente, bruciando, schiacciando, pietrificando» mentre attorno prevale l’indifferenza e «gli uomini trovano ugualmente il tempo di accapigliarsi e di scannarsi per un vaso di vino là dove tra poche ore sarebbe venuta la lava a prendere tutto».
Matteotti è in ogni caso l’unico dirigente del movimento operaio italiano che comprese fin dall’inizio novità e pericolosità del fascismo, senza indulgere nell’abbaglio ricorrente, in quasi tutti i socialisti e comunisti dopo la marcia su Roma, per cui «un governo borghese vale l’altro», e senza lasciarsi scappare sciocchezze su Mussolini che era comunque preferibile a Giolitti, come fanno all’epoca, nei loro carteggi, alcuni dei più illustri protagonisti del futuro socialismo liberale.
La colonizzazione liberalsocialista
Forse si potrebbe dire che con Matteotti nasce e muore una moderna socialdemocrazia del proletariato italiano, così come si può dire che con la morte di Giovanni Amendola scompare dall’orizzonte l’ipotesi, appena formulata, di un moderno partito liberaldemocratico della borghesia: il fascismo distrugge anche molte delle ricchissime potenzialità che erano germinate nel dopoguerra italiano.
Quando si tenterà dopo il fascismo di ripresentare l’esperienza di Matteotti, sotto sembiante saragattiano, apparirà velleitario e incoerente il richiamo ai principi di un «riformismo» che si avviava a divenire puro e semplice sinonimo di moderatismo, enormemente distante dalla fermezza classista di Matteotti. Né le cose andarono meglio nel filone maggioritario, e molto composito, del socialismo italiano. Nella sua ala sinistra anche un intellettuale inquieto e costantemente alla ricerca di una purezza classista del pensiero marxista, come Gianni Bosio, respinse la proposta di un’antologia di Matteotti sul fascismo per le edizioni Avanti! («otterrebbe il risultato di far pensare che noi condividiamo quelle posizioni»); quanto al filone che dopo il 1956 tornerà a definirsi «riformista», esso verrà progressivamente colonizzato sul piano culturale dal liberalsocialismo post-azionista, fino a estinguersi del tutto.
La storia di Matteotti è indubbiamente quella di uno sconfitto. Ucciso a soli 39 anni, paga con la vita la sua denuncia delle violenze e delle illegalità che hanno assicurato la vittoria del fascismo nelle elezioni del 1924. Il suo assassinio interrompe un percorso di cui nessuno può ipotizzare compiutamente gli esiti e priva l’antifascismo del suo leader naturale.
Se ormai la sua figura è ridotta dalla storia a simbolo, ad esempio morale, è giusto però che almeno si sappia di cosa volle essere simbolo ed esempio. La figura di Matteotti va ricondotta quindi alla dimensione che gli fu propria, di un politico socialista fermo nei suoi principi, incrollabile nella sua aspirazione a una società di eguali, liberata dall’oppressione delle classi dominanti. È questo forse il risarcimento che la storia degli italiani gli deve, di là dell’intitolazione di strade e piazze, di targhe e monumenti.
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