Visioni

Un pianista antinconformista

Un pianista antinconformistaAl pianoforte un giovane Renato Carosone

Feste di Piedigrotta Ultimo appuntamento con la storia parziale ed eretica della canzone napoletana nel tempo. Rivoluzione swing con Renato Carosone, il canone rovesciato di Pino Daniele, Roberto De Simone, ’E Zezi

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 19 agosto 2020

Nel secondo dopoguerra, alcune straordinarie melodie- Simme ‘e Napule, paisà, Dove sta Zazà, Tammurriata nera, tutte del 1944 e l’anno successivo Munasterio ‘e Santa Chiara – riuscirono a dare il senso della ricostruzione civile e sociale cittadina. E i suggestivi panorami marinari sfondano un po’ dappertutto con l’affascinante onomatopea di Scalinatella, cantata da Roberto Murolo, ‘Na voce, ‘na chitarra e’ o poco e luna dello chansonnier viveur ischitano Ugo Calise e gli altri due omaggi alla compagna del buio, Luna Rossa, musicata da Vian e portata al successo da Claudio Villa e Luna Caprese, incisa da Connie Francis (nata Concetta Rosa Maria Franconero a Newark). Avanza poi un pianista anticonformista, Renato Carosone, che ha suonato e trascorso tanti anni all’estero. Anche quando riprende successi di altri (Io, mammeta e tu e Guaglione), li rielabora con un tratto personale molto forte, scanzonato e vivace, certamente influenzato dal jazz e dai nuovi ritmi americani trattati con la contagiosa allegria della neapolitan way of life. Il suo primo grande successo da compositore fu Maruzzella nel 1955 poi venne il sodalizio con Nicola Salerno, in arte Nisa, autore di rara eleganza, napoletano trasferito a Milano. Nacque così Tu vuo’ fa’ l’americano. Da allora un diluvio di successi. Il suo gruppo andò in tour mondiale, da Parigi alla Carnegie Hall di New York dove Carosone venne ribattezzato «Mister Simpatia».

INTANTO, nel settembre 1952, viene organizzato il Primo Festival della Canzone Napoletana, al teatro Mediterraneo. Orchestre del maestro Cinico Angelini e di Giuseppe Anepeta, l’idea era quella di assecondare l’interesse dei discografici settentrionali per la melodie partenopee. Vince Desiderio ‘e sole, interpretata da Nilla Pizzi e Franco Ricci. Anche se la più bella è probabilmente Sciummo, di Bonagura e Concina, (“Tu scinne,/ sciummo, sciummo, sciummo,/da ’a muntagna../Io scanno/ ca na malasciorte/ mm’accumpagna…/ E ghiammo, ohé!/ Ll’ammore è sciummo ca se perde a mare”) cantata da Achille Togliani e Carla Boni, il parallelo tra ‘o sciummo cioè il fiume e l’amore, che passerà poi sulla bocca di Frank Sinatra, Edith Piaf e Perry Como, col titolo The River. Si disputò fino al 1970 (vincitore Peppino di Capri con Me Chiamme Ammore) prima di venire sommerso dalle polemiche e dalle diatribe organizzative e divenne la vetrina più famosa delle nuove canzoni lanciando alcuni bravi cantanti e molti successi. Il festival di Napoli celebra alcuni interpreti rinomati (Aurelio Fierro, Nino Taranto, Nunzio Gallo, Fausto Cigliano, Mirna Doris, Sergio Bruni, con una Viéneme ‘nzuonno, passata negli annali, “Viéneme ’nzuonno sí,/viéneme ’nzuonno!/ Nun mme scetá,/ famme ’mpazzí/’nzieme cu te”) e anche una fase di passaggio del paesaggio sonoro cittadino, via via annacquatosi con l’arrivo dell’orchestra e della ballabilità, due autentiche novità per i motivi made in Naples. Una stagione festeggiata anche dal cinema con numerosi film che servivano spesso solo da antologia di canzoni e sketches nello scenario del golfo come Scapricciatiello, Malafemmina, Guaglione, Serenatella sciuè sciuè e tanti altri. Un’idea originale di Maria Elvira Giuseppa Coda, più nota come Elvira Notari (1875-1946), prima regista cinematografica italiana, personaggio di talento assoluto, che realizzò oltre 60 lungometraggi tra il 1906 e il 1929 e centinaia di cortometraggi, con la sua casa di produzione Dora Film. Aveva l’abitudine di comprare i diritti delle canzoni preferite alla festa di Piedigrotta e poi portarle sullo schermo con immagini d’avanguardia e storie sceneggiate (E’ piccerella del 1922 e Sirena d’e canzoni, 1929).

CON LA FINE degli anni ’60 le istanze di rinnovamento della società italiana troveranno spazio nella musica leggera. E le nuove generazioni, in cerca di libertà e di progresso, proveranno inizialmente a rovesciare il «canone napoletano» e poi a innovarlo e inglobarlo nelle loro proposte sonore. E il caso del Neapolitan Power, nato sulla lezione del pop angloamericano, con l’arrivo di molte band – gli Showmen, gli Osanna, Napoli Centrale, il Balletto di Bronzo – e principalmente di nuovi cantautori – Edoardo Bennato, Alan Sorrenti, Nino D’Angelo, Teresa De Sio. Su tutti svetta Pino Daniele, il musicante che ha imparato la lezione delle truppe americane, dei pianini dei vicoli con le melodie antiche, della nuova consapevolezza giovanile partenopea. II suo primo album, Terra Mia, 1977, ha dentro la rabbia, il dolore e i sogni di un ragazzo che s’esprimeva con la parlata di strada, un dialetto crudo e verace ai limiti della poesia, che voleva uscire fuori dagli schemi della Napoli folklorica, che credeva nella possibilità di cambiare e lo cantava puntando su accattivanti melodie, come Terra mia, Libertà, Che calore. Napule è, una malinconica e struggente dichiarazione d’identità e d’appartenenza, col passare del tempo trasformatasi in un inno a un territorio degradato e amato, una delicata poesia già finita nelle antologie scolastiche. Seguiranno tante altre canzoni e dischi indimenticabili, da Je so’ pazzo a Chi tene ‘o mare, da Vai ‘mo a Lazzari felici, completando quel processo di crossover sonoro richiamando blues, pop, jazz e rock tra le note della sua ineguagliabile chitarra.

ALLA FINE degli anni ’70 va in porto anche la ricerca sonora di Roberto De Simone, etnomusicologo e compositore, con un lavoro di ricerca e di riproposizione in chiave moderna del grande patrimonio popolare, pubblicando il monumentale La tradizione in Campania, sette album realizzati in studio con i più famosi cantori d’area regionale, e La gatta cenerentola, un’opera di teatro musicale con l’aiuto della Nuova Compagnia di Canto Popolare. I ritmi di rivolta dell’entroterra campano hanno trovato la loro massima espressione nel Gruppo Operaio ‘E Zezi, di Pomigliano d’Arco, un ensemble vivo e militante da oltre quarant’anni, in grado di rivitalizzare canti popolari e filastrocche dimenticate con le marcette e i brani della lotta operaia, gravitando nell’area dell’insediamento industriale prima Alfasud oggi Fiat. Dopo il terremoto del 23 novembre 1980, la città si agita tra un teatrale Tango Glaciale e un Blues Metropolitano al cinema, trasformandosi in un calderone incandescente con l’arrivo di Bisca, Daniele Sepe, Avion Travel, Almamegretta, 24 Grana, 99 Posse. E altre ondate sopravanzano negli anni Duemila coi rapper e i neomelodici, ultimi aggiornamenti di una tradizione viva, di un melting pot mediterraneo dove, alla sgangherata elettronica di Luciano Caldore, Ciro Ricci e Rosario Miraggio fa da antitesi il low-fi del cantautore Canio Loguercio, inventore di un dialetto napoletano update, letterario e palpitante, col suo Amaro Ammore, che non disdegna d’insinuarsi nei vecchi classici (Passione, Indifferentemente).

POCHI MESI FA, passeggiando per North End, il quartiere italiano di Boston, tutto stradine e ristoranti napoletani, dalla vetrina di un giovane pizzaiolo si diffondevano Secondigliano Regna di Enzo Dong, Nuie Vulimme ‘na Speranza di Ntò e Lucariello e ‘O vient di Clementino, sparati da uno smartphone, un frastuono totale, simile a quello dei fischietti e tamburi dei cortei di operai Whirlpool a via Argine, mischiando frammenti diversi da ‘O lavoro, il motivo/slogan dei Disoccupati Organizzati e Abbiamo un sogno nel cuore, coro da stadio, per ribadire che non bisogna mollare mai. Non ci sono strofe liriche o invenzioni alate, è il disperato respiro dell’oggi, uno dei mille rivoli di quella corrente sonora che sale dai decumani e avvolge di sillabe tronche tutto il Golfo.

4. fine
(le puntate precedenti sono uscite il 30 luglio, 5 e 12 agosto)

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