ExtraTerrestre

Un patriarca a Tokyo

Arbor maxima All’ombra di un ginkgo che da più di 800 anni vive nel centro della capitale giapponese, con le sue cicatrici sulle cortecce che ricordano i bombardamenti degli americani

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 12 gennaio 2023

Non è facile coniugare l’immagine di un vasto albero dalle lunghe radici che colano intorno ad un tronco monumentale e l’urbanistica eccitata e corrosiva di una metropoli di otto, dodici, quindici o venti milioni di persone.

FORSE I LUOGHI sulla terra dove meno ci attenderemmo di incontrare alberi longevi e maestosi sono proprio le nostre più concitate concentrazioni di edifici, architetture, grattacieli e metropolitane. Eppure così come grandi alberi non mancano a Roma e a Milano, a Parigi, a Lisbona e nemmeno a Londra, essi compaiono nelle enormi distese di edifici verticali che si addensano nei cuori lussuosi di New York, Chicago, Singapore, Hong Kong o Tokyo.

UN ALBERO STIMATO TRA GLI 800 e i 900 anni vive nel quartiere di Minato della capitale nipponica. L’ho visitato qualche stagione fa, resta una delle visioni più sorprendenti della ristretta ma non impossibile legione di Patriarchi arborei che ho incontrato laddove mi sarei aspettato sì dei bei giardini, sì dei viali ben tenuti e magari addirittura storici, ma non alberi di certe età.

SAPPIAMO CHE GLI ALBERI PIU’ ANNOSI di Roma si attestano intorno ai 400-450 anni, i più longevi di Milano e Torino non toccano i 250 anni (forse con un’unica eccezione per quanto concerne il Platano della Tesoriera, in Piemonte, sulla cui età stimata siamo ancora a ipotizzare, forse 300 o forse, più probabilmente, 200 anni).

IL PIÙ ANNOSO ALBERO DI NEW YORK probabilmente si trova A Washington Square, un olmo sul quale venivano impiccati i traditori durante la rivoluzione americana, nella seconda metà del XVIII secolo. Dunque cosa potersi attendere da Tokyo, la città più avanzata tecnologicamente, oltre venti milioni di umani residenti attorno alla bacia di Yokohama? Qui dove anticamente invece c’era una vera e propria città giardino, con edifici in legno ben distanziati e viali, giardini, templi scintoisti e buddisti, alberi, ciliegi, negozi dai coloratissimi nastri verticali con gli ideogrammi vistosi? Qui dove gli uomini indaffarati nei loro abiti azzurri e rossi e bianchi sono stati così bene descritti da Lafcadio Hearn (1850-1904) nei suoi primi viaggi giapponesi (consiglio la lettura, per me commossa del breve Il mio primo giorno in Giappone, Adelphi)?

QUEL MONDO ANTICO, LENTO, che forse ancora venne sfiorato nel suo Viaggio a Tokyo dal regista Yasujiro Ozu, oggi è stato ampiamente sostituito, Tokyo è la grande città ordinata e pulitissima, densa, popolosa, ci siamo abituati a vederla in televisione, o al cinema, nei manga, descritta in così tanti romanzi e viaggi di occidentali nippomaniaci, come lo sono stato anch’io, anzitutto da ragazzo, quando ascoltavo musica giapponese, vedevo film giapponesi, collezionavo i Kawabata, i Tanizaki, i Mishima, e le novità di allora, le Banane Yoshimoto, i Murakami, gioendo per il nobel alla letteratura assegnato nel 1994 a Kenzabuto Oe che andai a vedere con i mie occhi a Milano, ad un incontro in Statale. E così nei miei giorni per così dire solitari a Tokyo, in mezzo a tutto questo bailamme di volti, ho visitato templi, parchi e giardini, musei, e camminato molto.

AVEVO LETTO DI UN ENORME GINKGO presente nei giardini che circondano uno dei più antichi templi buddisti della capitale, il Zenpuku-ji, pensavo fosse un complesso religioso immerso in uno spazio ampio, ma quando vi giungo mi accorgo che è come un vaso di fiori fra scatoloni enormi. A lato del portale si manifestava la chioma dell’albero, alle spalle del tempio una torre in cemento, un pirellone inquietante e minaccioso. Qui ha messo radice la prima delegazione americana, il 3 giugno 1859.

SCARTO LE ARCHITETTURE E MI INOLTRO tra le tombe in pietra che affiancano il tempio. Qui lo posso ammirare, il ginkgo – jin kuo vuol dire albicocca argentata – e la sua chioma materna, alta una ventina di metri. Quel che mi colpisce è la dimensione della base: la massa di crescite e concrescite che si ammira lì sotto è notevole. In Europa non abbiamo nulla del genere.

I MAGGIORI GINKGO D’ITALIA hanno tronchi di circa cinque metri di circonferenza, fuscelli rispetto a questo. Un ventre ampio si manifesta, l’unico altro esemplare di pari vastità cresce da un migliaio di anni nel nord del Giappone, nella città di Aomori. Dai rami pendono colature lignee, ricordano le stalattiti delle grotte, come se la corteccia si fosse disciolta e rappresa. Per questa ragione il nome locale è Sakasa Icho, ossia ginkgo su e giù.

L’ALBERO CRESCE IN UN TERRAPIENO rettangolare circondato da una ringhiera, girandoci intorno si può comprendere che si tratta di più crescite che si sono addossate e rigenerate. La parte retrostante è «scottata» dalle fiamme degli incendi provocati dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, quando la città venne bombardata dalle corazzate volanti degli americani. Girandoci intorno si vedono le cortecce spaccate, fessurate, che si sono brunite e recentemente rinnovate. È un albero delle cicatrici che ci testimonia quanto la natura possa resistere e rinascere, non a caso il ginkgo è, come noto, fra i sopravvissuti all’esplosione atomica di Hiroshima e per questo detto anche «albero della pace».

OVUNQUE NEL MONDO I SANTI E I PADRI spirituali compiono miracoli, al pari di quanto fece Francesco d’Assisi che, secondo leggenda, avrebbe piantato di suo pugno otto secoli fa, fra Emilia Romagna e Toscana, un ramo di cipresso generando quel gigante fragile che oggi possiamo ammirare nel giardino rettangolare al centro del chiostro nel santuario dei frati minori di Villa Verucchio.

ANCHE A TOKYO IL RAMO DI GINKGO sarebbe stato piantato a terra da Honen Shonin (1133-1212), monaco fondatore di quella che nel corso dei secoli sarebbe diventata la più seguita scuola buddista, la Terra Pura (jodo-shin-shu); ovviamente oggi viene celebrato come una figura portante della cultura medioevale giapponese, ma al tempo venne prepotentemente contrastata, anzitutto dai referenti delle scuole buddiste già operanti, stessa sorte che toccò le prime scuole zen.

L’ALBERO DEL TEMPIO ZENPUKU è riconosciuto monumento nazionale dal 1926. Accanto al tempio c’è una scuola, sento i bambini che giocano con una maestra. Parlo con un giovane monaco e insieme ci mettiamo a misurare la circonferenza dell’albero: il tronco misura 12 metri e 30 centimetri, a petto d’uomo. Una tabella del 1979 riporta queste misure: 10 metri di circonferenza alla base, venti i metri di altezza. Starci sotto è molto rilassante.

TUTTA QUESTA MASSA DI VENTAGLI svolazzanti, il verde brillante è un colore oltremodo pacificante. Certo, è un albero addomesticato, stretto com’è nel centro di una città così popolata e cementificata. Stando qui sotto però mi sovvengono alcuni versi del poeta girovago giapponese per antonomasia, Matsuo Basho (1644-1694): «Forse, nascosti fra gli alberi, / stanno ascoltando il cuculo / anche i raccoglitori di tè». Mi guardo intorno, fischietto e me ne vado.

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