Un pastiche esistenziale
Scaffale «Vitae» di Maria Pia Quintavalla: brevi istantanee per un romanzo di formazione
Scaffale «Vitae» di Maria Pia Quintavalla: brevi istantanee per un romanzo di formazione
Il libro di Maria Pia Quintavalla dal titolo Vitae edito da La vita Felice (pp.126, euro 13) potremmo definirlo un alto pastiche esistenziale, un «romanzo vissuto e di formazione» come dice Giuseppe Marchetti in prefazione; brevi istantanee, flash visivi, rammemorazioni lunghe ma, a leggerle bene, queste pagine ci parlano in particolare di una cosa: la nascita del tempo poetico. In Vitae vi è questa traccia che in punta di penna avvolge ogni storia. E se proprio volessimo intendere da dove questa scia ha inizio, dovremmo partire dalla terza parte del libro intitolata China in prosa. China era il nome dato alla madre della poetessa così chiamata «per la frangetta nera e gli occhi nero liquido di China». In queste pagine finali, si srotola la nascita di una poetessa: la madre che sta per morire, che muore ed ecco lo spessore tragico e poi subito lo slargo memoriale, la madre che racconta ai suoi figli le cose del mondo. Tutto inizia dall’ascolto: «…eri inesausta nel narrare, tutto rapivi al volo del racconto, nei dettagli di una epica solenne, e noi tutti lì vinti, ad ascoltarne il verbo, il verso». Ecco la fonte struggente e vitale che poi si definirà negli anni a venire di Maria Pia Quintavalla, scrittrice che ha saputo tanto dirci con i suoi libri-esperienza e si ricordi per citarne solo alcuni I Compianti del 2013 China del 2010 per risalire sino ad Album feriale del 2005.
MA «VITAE» NON È SOLO l’apertura di un battesimo poetico, è pure la riscrittura memoriale dei luoghi, tanto che di essi Maria Pia ne traccia come una storiografia, che vuol essere storiografia degli affetti ma anche delle tensioni ideali sempre in bilico, in gioco, come quando il suo primo compagno E. dice quasi sarcastico: «“…voi, voi socialdemocratici nordici” (e già traditori) sembrava accusare» così lontani nel suo pensiero da certa cultura napoletana. E poi ancora in visita dal poeta Zanzotto, l’anzidetta cucitura storiografica emerge nella terra veneta cementificata e snaturata: «era come il Veneto uno se lo ricorda, lo immagina, ma era anche il suo paesaggio, quello delle Ecloghe, e di Dietro il paesaggio, e della trilogia dopo La beltà», ma anche in certe pagine di quel territorio parmigiano trecentesco di Ravarano col suo castello, dove il poeta illuminato, il pio marchese Manfredino Pallavicino è esistito con il suo «corpus nuovo di leggi splendide» non importa quanto poi sia riuscito a creare una città del sole ante litteram, perché in quel luogo, in quel mulino sospinto dalla sacra acqua e dal «…vento riparatore», ancora il viaggiatore moderno sentirà un fremito, un richiamo spirituale, a fare della sua vita, una vita degna.
PER QUINTAVALLA la ricerca coincide col territorio benedetto dalla esperienza di vita, quindi di relazione e costruzione dell’utopia che già alla fine degli anni ’60 del secolo scorso tanti ragazzi non ancora ventenni, volevano realizzare con «le stagioni totali». Come allora non leggere le pagine luminose e strazianti sulla poetessa Giovanna Sicari, come incontro che si fa amicizia, scambio vitale, testimonianza autentica; in quel momento, in quegli anni, sembra che tutto si giochi sul bilico delle profonde parole poetiche, che davvero mettono in gioco, sino al tempo ultimo: «Giovanna aveva voluto liberarsi delle macchine della respirazione, alla fine, come avrei saputo da Milo, far aprire i vetri e gridare: Basta basta, voglio respirare aria!».
QUESTA PROSA di testimonianza sulla vita, sulla morte di Sicari è poesia essa stessa alle massime corde. È anche un risvolto struggente di Maria Pia che quasi è divenuta, in punta di commozione, il suo amato E., Giovanna Sicari, Andrea Zanzotto, il poeta marchese Pallavicino, sua madre, Antonio Porta. Un po’ tutte queste voci è l’autrice e dal suo largo sorriso di scrittura sembra suggerirci: resistete allo strazio dell’odierna vita così lontana dalle vere esperienze e che sembra non credere più allo slancio, a quel sogno di una cosa, che per molte generazioni addietro ha voluto dire patimento ma anche forse, per un attimo, l’idea di una communitas raggiunta.
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