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Un paese ostaggio delle politiche coloniali

Un paese ostaggio delle politiche colonialiScultura votiva del Congo

Saggi Una storia del Congo. Dai primi rapporti con l’Europa ai recenti conflitti. Dopo l’indipendenza, si sono succeduti colpi di stato e il «regno» di Mobutu imposti dalle multinazionali . Un punto di equilibrio "politico" dell’Africa cancellato dall’Occidente al fine di esercitare il controllo sulle sue ricchezze

Pubblicato quasi 11 anni faEdizione del 15 ottobre 2013

Per motivi oscuri il Congo è preso spesso come termine di riferimento negativo per giudizi offensivi. Un classico è «baluba» usato come insulto da chi non sa nulla del popolo o regno luba (il prefisso «ba» o «wa» serve a qualificare il plurale di un etnonimo nelle lingue bantu). Si spiega forse anche così l’accanimento contro il ministro Cécile Kyenge, originaria appunto del Congo. E poco importa che la denigrazione risulti particolarmente fuori luogo perché, come documenta anche un importante libro sulla storia del Congo uscito di recente in francese (David Van Reybrouck, Congo, une histoire, Actes Sud), il Congo, a cominciare dal fiume che porta questo nome, appartiene all’eccellenza dell’Africa.

L’interfaccia con l’Europa

Nelle sue varie conformazioni territoriali, statali o di bacino commerciale il Congo è stato uno dei poli attraverso cui nelle varie epoche l’Africa ha partecipato al sistema globale, sia pure come oggetto più che come soggetto. L’Africa, a differenza anche di paesi come Cina e India, non ha mai capeggiato un’economia-mondo. Con questi limiti, il Congo è stato al centro degli eventi dall’inizio dei rapporti fra Africa ed Europa con le imprese marittime dei portoghesi e poi nei secoli della tratta e finalmente con l’avvio della spartizione del continente nero.

Il primo vescovo nero consacrato a Roma nel Cinquecento veniva dal Congo: Henrique, figlio del re Affonso I. Gli storici della tratta valutano che un terzo di tutti gli schiavi trasportati nelle Americhe (4 milioni su 12) erano originari della regione congolese. Il possedimento personale di Leopoldo II aprì la «corsa» all’Africa e divenne il teatro delle peggiori rapine del colonialismo speculativo. Anche nell’indipendenza il Congo ha scontato la maledizione di essere il cuore malato dell’Africa. L’«anno dell’Africa» ha registrato la sua crisi più grave nel Congo. Nella fase della «rinascenza» negli anni Novanta il processo di democratizzazione o più semplicemente di cambio si è inceppato nel Congo con la cosiddetta prima guerra mondiale per il Congo, coinvolgendo sui due fronti una mezza dozzina di Stati.

L’Onu ha inaugurato le operazioni di pace nel Terzo mondo per far fronte alla secessione del Katanga nel 1960: Dag Hammarskjöld e Patrice Lumumba, i due attori principali di una trama finita in tragedia, non erano fatti per intendersi e sarebbero morti a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro, vittime dirette o indirette di una congiura su scala internazionale in cui l’Occidente toccò il fondo dell’ignominia. Ancora oggi l’Onu è presente nel Congo con una missione che per il numero degli effettivi impiegati non ha pari nel mondo ma senza venire a capo della lotta senza quartiere che suscitano le ricchezze di questo vero e proprio «scandalo geologico».

La «tenebra» che ispirò il genio narrativo di Joseph Conrad non era tanto nel Congo profondo quanto nello sguardo e nelle ossessioni dei suoi visitatori bianchi. Quando le atrocità commesse da Leopoldo II, che personalmente non ha mai messo piede nel suo Congo ma che contava su funzionari ligi alle sue direttive, non poterono più essere ignorate per le denunce di tanti missionari e del diplomatico-giornalista Roger Casement, alla cui vita sfortunata ha dedicato un libro Varga Llosa (Il sogno del celta), autori del calibro di Mark Twain, Arthur Conan Doyle e dello stesso Conrad diedero voce all’indignazione del mondo che «sapeva». Per calmare lo scandalo, Leopoldo II fu espropriato dal suo stesso governo ma, come dimostra Van Reybrouck, i belgi, anche se sostituirono il rigore ai capricci, non si dimostrarono tanto migliori di un sovrano avido e megalomane. La prova finale fu il passaggio delle consegne fra il Belgio e il governo indipendente il 30 giugno 1960. I preparativi – dalla «tavola rotonda» fra governo e partiti nazionalisti alle prime elezioni e all’ammainabandiera – durarono in tutto sei mesi. Al discorso di re Baldovino che sembrava scritto ai tempi della Conferenza di Berlino il capo del governo Lumumba, un nazionalista più che un rivoluzionario, rispose con una filippica che non si era mai sentita in simili cerimonie.

Il sistema della cleptocrazia

Dopo il tradimento di Tshombe furono poste le premesse per la «restaurazione». Il Congo non poteva sfuggire al controllo dell’alta finanza. Tutto era pronto per il lungo «regno» di Mobutu: è stata coniata la voce «cleptocrazia» per definire un regime che, fra violenze, retorica dell’autenticità e corruzione, sfuggiva ai parametri della scienza politica. Quando fu necessario, gli Stati Uniti lasciarono cadere il Faraone d’Africa prima della Francia. Alle miserie non c’è mai fine. Malgrado le due elezioni del 2006 e del 2011 la legittimità di Kabila figlio, la stabilità del governo e la stessa integrità dello Stato sono ancora in bilico. Il Congo è una realtà in larga parte non avverata. Ci sarebbe bisogno invece del suo peso per bilanciare nella politica africana il duopolio conflittuale di Nigeria e Sud Africa, che non riescono a riempire il vuoto che dalle indipendenze degli anni Sessanta si è aperto in mezzo al continente.

I detrattori nostrani dei neri sarebbero sorpresi se leggessero questa pagina quasi conclusiva del libro dello storico belga già citato: «A Kinshasa (la capitale del Congo) sta crescendo una generazione per la quale gli europei sono più esotici dei cinesi. Esiste di nuovo un Congo di bambini che non hanno ancora mai visto un bianco nella realtà, proprio come alla fine dell’Ottocento». L’arroganza di chi è cresciuto al riparo della modernità coloniale potrebbe essere il segno che quel mondo così gratificante non esiste più mentre nessuno in Italia e forse in tutta Europa ha un’idea di quale politica adottare. Non per niente, ci sono anche illustri intellettuali che, senza saperlo, nutrono le stesse paure di Calderoli.

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