Un paese fermo alle porte del paradiso
Grande Iran Intervista a Parisa Reza, autrice del romanzo «Giardini di consolazione» per le Edizioni e/o
Grande Iran Intervista a Parisa Reza, autrice del romanzo «Giardini di consolazione» per le Edizioni e/o
Fotografare un trentennio difficile e carico di speranze come quello attraversato dall’Iran tra gli anni Venti e Cinquanta del Novecento non è semplice. Con il suo romanzo d’esordio, Parisa Reza, scrittrice iraniana trapiantata a Parigi, sembra riuscire nell’impresa. Giardini di Consolazione (edizioni e/o, pp. 256, euro 17, traduzione di Alberto Bracci Testasecca), già pubblicato in Francia due anni fa, ha vinto il prestigioso Prix Senghor, riconoscimento che il mondo della letteratura francofono assegna all’impegno nel creare dialoghi tra culture attraverso l’uso di una lingua comune.
NEL 1921, il colpo di stato in Iran mette al potere lo shah, Reza Khan. Il progetto politico del nuovo sovrano viene presto attuato, determinando una svolta significativa nel Paese: istruzione obbligatoria e proibizione del chador, per cominciare. L’arginamento del potere temporale dei religiosi messo in atto da Reza Khan viene perpetrato da Mossadeq, che tra il 1950 e il 1953 fa scoprire all’Iran una fase democratica. Periodo che si concluse brutalmente con un altro colpo di stato. Nel 1979, dopo la cacciata di un altro shah gli ayatollah prendono il potere.
Le vicende nazionali dell’Iran raccontate sono il teatro di un’epopea familiare; al centro vi sono Sardar e Talla – due contadini di un remoto villaggio dell’entroterra che abbandonano la loro oasi rurale per trasferirsi in città. Gettati in una realtà distante, faticano ad abituarsi. Al contrario, il loro unico figlio Bahram si integra nella nuova realtà: legge giornali, si interessa di politica, esce con ragazze delle quali può vedere il volto. Uno spaccato famigliare che racchiude tutte le speranze dell’epoca tradite dalla Storia.
TITOLO SIGNIFICATIVO, Giardini di consolazione «ha a che fare con l’origine della parola paradiso», ci spiega Parisa Reza, «il termine persiano pardis vuol dire giardino. Il popolo iraniano conosce bene invasioni, attacchi militari e sconfitte: in quei giardini persiani, famosissimi in tutto il mondo, le persone trovavano rifugio e conforto alle proprie delusioni. In fondo, sono come le fenici: risorgono dalle proprie ceneri».
Che significato assume la migrazione di Talla e suo marito dall’asfittico villaggio di Qamsar fino alla moderna e progredita Teheran?
Inizialmente, volevo raccontare l’incontro tra modernità e tradizione. Solo quando avevo concluso la fase di scrittura e mi sono ritrovata a leggere le mie pagine, mi sono resa conto che l’esodo della famiglia aveva assunto un significato simbolico: lasciando il loro villaggio, isolato paradiso montano, Talla e Sardar si ritrovano catapultati sulla terra degli uomini, con le loro passioni e i loro tormenti.
Ha scelto un’epoca poco raccontata. Perché?
Considero quella fase storica dell’Iran come un passaggio fondamentale nella storia moderna iraniana. Gli anni in cui è ambientato l’inizio del romanzo sono quelli in cui dall’Occidente arrivò la modernità. Allora in Iran tutto sembra possibile. Dopo la seconda guerra mondiale, soffiava un vento di libertà, i partiti politici erano fiorenti, ed era il Parlamento ad esercitare il potere politico. Con il colpo di stato – che chiude il libro – si conclude il periodo più democratico del Paese. La repressione che seguì, si tradusse in una diarchia religiosa e politica.
Il capovolgimento che si verificò coinvolse, non solo l’Iran e il suo destino, ma anche gli equilibri geopolitici di tutto il Medioriente dalla fine del XX secolo.
Nel romanzo si nota una dicotomia molto forte: la coppia Sardar-Talla è semi analfabeta e vive ai margini della modernità; Bahram è invece brillante e partecipa alla vita pubblica. È lo specchio di quel tempo?
Sì. Bahram fa parte della prima generazione di iraniani ad aver beneficiato della scuola obbligatoria e gratuita; in qualche modo, rappresenta la futura élite del Paese. A quel tempo, il re voleva costruire un Iran moderno, fatto di intellettuali che fossero in grado di tagliare i ponti con le proprie radici e che conoscessero lo stile di vita Occidentale. Al tempo stesso, una fetta persistente di società continuava a viveva nel limbo dell’analfabetismo.
Il suo libro parla anche di aspettative deluse: aspettative deluse che potrebbero coinvolgere molti iraniani se l’accordo sul nucleare firmato con gli Usa di Barack Obama dovesse saltare a causa delle discutibili manovre del nuovo presidente Trump. Cosa pensa del divieto d’ingresso imposto ai cittadini di 7 paesi a maggioranza musulmana, tra cui l’Iran?
Considero la misura restrittiva di Trump una mossa discriminante e anacronistica. Inutile dire che aumenterà le tensioni e l’odio tra i due popoli. In pochi giorni, il decreto di Trump è riuscito a creare numerosi problemi, che vanno ben al di là dei blocchi o degli arresti avvenuti negli aeroporti statunitensi. Iracheni, Yemeniti, Iraniani – persone molto lontane dall’America e con le quali un occidentale non si sente affatto identificato – sono state private della libertà fondamentale su cui una democrazia come quella americana è stata fondata: la libertà. Nonostante tutto questo, continuo a credere in un’altra America: l’America che resiste.
Un’America che resiste come l’Iran degli anni difficili. Cosa ha rappresentato Mohammad Mossadeq per il suo Paese?
È stata una delle più grandi figure del XX secolo. Provi a immaginare cosa significò opporsi all’Impero Britannico e vincere la battaglia per la nazionalizzazione del petrolio iraniano.
Come pensa che cambierà l’Iran, vista la situazione internazionale che si sta definendo?
Se i vertici politici mondiali non scateneranno una guerra, che nella situazione attuale non è da escludere, sono fiduciosa nell’evoluzione iraniana. Il paese ha sperimentato la tesi ultralaica di Pahlavi e la sua antitesi. A 40 anni di distanza, l’Iran di oggi sta cercando di sintetizzare tutti i passaggi, elaborando i propri lutti, per costruire il suo futuro. Tuttavia, la sua marcia è molto lenta, ma va nella direzione giusta: quella dell’accettazione di sé e degli altri.
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