Cultura

Un ostinato desiderio di indipendenza

Un ostinato desiderio di indipendenzaDalla copertina di «Gloria» dell’edizione Sextopiso

Letteratura latinoamericana «Gloria», il romanzo dello scrittore colombiano Andrés Felipe Solano, pubblicato da Sur. Il libro non si sottrae alla ricostruzione della realtà a partire da ricordi, oggetti a lungo conservati, ritagli di giornale, fotografie, filmati e reportages

Pubblicato circa un'ora faEdizione del 7 novembre 2024

A quasi cinquant’anni (è nato a Bogotà nel 1977) Andrés Felipe Solano ha alle spalle un’esistenza vagabonda: dalla Colombia a New York, dagli Stati Uniti all’Europa, e infine a Seul, dove vive e scrive ormai da un decennio e dove si è consumato il suo definitivo passaggio dal giornalismo narrativo, che ha praticato con notevole successo, al romanzo. Dopo Los días de la fiebre (Tusquets, 2020), raccolta di cronache sulla Corea al tempo del Covid, l’autore ha infatti dichiarato la sua preferenza per forme che includano un ampio esercizio dell’immaginazione, anche se stabilire un preciso confine tra generi è difficile e probabilmente inutile, com’è già evidente in Cementerios de neón (2017), il suggestivo noir che Solano ha costruito intorno alla storia di un reduce del Batallón Colombia, uno dei cinquemila «volontari» inviati nella penisola coreana per combattere insieme alle truppe nordamericane (una drammatica epopea che ha lasciato tracce solo nella società, ma anche nella letteratura colombiana).

IL CONFINE APPARE ancora più labile nell’ultimo libro dello scrittore colombiano, Gloria (appena proposto da Sur nella bella traduzione di Giulia Zavagna, pp. 128, euro 17), che reclama autonomia narrativa e libertà di invenzione nell’accostare immagini, ipotesi, suggestioni, ma non si esime dal ricostruire la realtà a partire da ricordi, oggetti lungamente conservati, ritagli di giornale, fotografie, filmati e reportages.
Un equilibrio delicatissimo tra verità e finzione, tanto più difficile da mantenere in quanto al centro del racconto c’è la madre dell’autore: perché questa è la sua storia, una storia vera, incompleta e frammentata in tre episodi che si intrecciano e si confondono grazie a numerosi salti temporali, affiancando alla protagonista ventenne la moglie e madre che diventerà, e poi la donna matura che si accomoda in una composta solitudine.
L’autore si è dunque lasciato tentare dall’eterno inseguimento della figura materna, che, in forma di lettera, di rievocazione amorosa, di dialogo, di regolamento di conti, di appello alla guarigione, ha tentato innumerevoli scrittori-figli (la bibliografia è vastissima: tra i tanti, Albert Cohen, Georges Simenon, Roland Barthes, Annie Ernaux, Doris Lessing, Edith Bruck…); a differenza di altri, però, Solano sceglie l’oggettività e la distanza, adotta lo sguardo di uno spettatore che non giudica, non usa mai la parola «madre», non esibisce traumi o nostalgie filiali e si fa narratore invisibile. Ed è proprio a questa scelta, forse, che di deve l’accattivante leggerezza di un testo che evita il tono confessionale come la superficialità dell’aneddoto, e sciorina sommessamente le sorprese, le allegrie e le delusioni di quello che a suo modo è un romanzo di iniziazione.

L’EPISODIO PIÙ IMPORTANTE, un vero e proprio filo conduttore, riguarda il giorno in cui la ragazza assiste al concerto che Sandro, idolatrato cantante argentino, tenne nel 1970 al Madison Square Garden davanti a migliaia di spettatori in delirio: un avvenimento ricreato nei minimi dettagli, sommando immagine a immagine, emozione a emozione, e inserendo tra una scena e l’altra brandelli di vita passata e presente (l’assassinio, o forse il suicidio, del padre di Gloria bambina, la famiglia borghese che ha lasciato, il modesto lavoro trovato a New York), ma anche le schegge di futuro che si irradiano da un ostinato desiderio di indipendenza.

GLORIA CON LA MINIGONNA rossa, Gloria che aspetta il suo primo fidanzato in perpetuo ritardo, Gloria che impara come siano sufficienti una parola o un tono di voce per mettere in pericolo rapporti ancora inesplorati, Gloria che cammina fiduciosa per le strade buie della città, Gloria ormai adulta che vaga per Miami con due bambini piccoli e percepisce l’odore notturno della libertà perduta, o che, quasi anziana, ritrova l’orgoglio di bastare a sé stessa. Un’istantanea dopo l’altra, Solano scova barlumi di poesia nelle piccole cose e non manca di alludere alla Colombia della violencia, ma soprattutto evoca la New York degli anni ’70 (la stessa vista in The Deuce, memorabile serie tv del 2017), città pericolosa in cui però si fa largo il fermento della politica e della controcultura, rappresentata dalla foto con cui il romanzo si chiude: la protagonista seduta su una panchina accanto al cieco Moondog, musicista di strada e compositore «minimalista» divenuto leggenda.

LA NEW YORK di Gloria, però, è innanzitutto quella degli immigrati che negli Stati Uniti vengono sbrigativamente chiamati latinos, radunandoli sotto una stessa etichetta anche se provengono da paesi diversi e sono portatori di tradizioni, estetiche e linguaggi differenti tra loro (l’impasto linguistico è riprodotto dall’autore con una cura mimetica che, per ovvie ragioni, la traduzione in un’altra lingua può solo farci intuire), di musiche e danze nuove, dalla salsa al bogaloo, e di influenze capaci di dar vita a una vigorosa cultura popolare e meticcia. Ed è anche grazie all’eccellente disegno degli ambienti, dei luoghi, delle atmosfere di un’altra New York e di un’altra America, oggi perduta, che Solano esce dai panni del romanziere o del cronista per indossare semplicemente quelli di un scrittore autentico, al di là di ogni etichetta.

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