Se non ci fosse già stato, qualcuno prima o poi avrebbe dovuto inventarlo. Il Museo nazionale d’arte orientale (Mnao) che da sessant’anni ha la sua sede presso Palazzo Brancaccio non poteva avere una collocazione storica più felice, considerando i cambiamenti che hanno interessato il quartiere che lo ospita – l’Esquilino – negli ultimi decenni.

LUOGO DI CONOSCENZA di culture diverse, rete estesa di studi, punto di riferimento assoluto e, non ultimo, luogo di fascino profondo che «risponde» e interagisce con un edificio di fine Ottocento dallo stile eclettico. I suoi arredi originali e le decorazioni (su disegno di Francesco Gai) sono stati recuperati dallo Stato in una serie di lavori condotti tra il 1991 e il 1994, quando era direttrice Donatella Mazzeo, e che portarono anche a un riallestimento delle sue sale: per la sicurezza vennero rimossi controsoffitti e contropareti, riscoprendo decorazioni importanti che condizionarono anche il successivo impianto del museo, in un dialogo aperto con gli spazi. Da quegli anni, il contenuto (le collezioni) si è intrecciato con il contenente (Palazzo Brancaccio), offrendo al pubblico un unicum che attraversava i secoli con l’ausilio dei linguaggi dell’architettura e dei manufatti artistici.

IL MNAO STA invece per lasciare la sua sede per viaggiare alla volta dell’Eur dove, con i suoi sessantamila oggetti (di cui quattromila derivanti dalla donazione Tucci, in parte arrivati anche tramite eredità, con il testamento di Francesca Bonardi Tucci che alla sua morte, avvenuta nel 2014, lasciò gli ultimi oggetti conservati in casa) dovrà entrare a far parte del MuCiv, il polo museale delle Civiltà che vede accorpati Pigorini, Alto Medioevo, Arti e tradizioni. Il tutto avverrà sotto la guida di Filippo Maria Gambari, uno dei dieci superdirettori designati dal ministro Dario Franceschini.

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NEGLI ULTIMI ANNI soprintendente per i beni archeologici dell’Emilia Romagna, della Lombardia e poi della Sardegna, Gambari sarà un direttore trasversale che – come rivela lui stesso in una (auto)intervista apparsa sul sito del Museo delle Civiltà per difendere la scelta dello spostamento – ha accettato un compito complesso, «il riallestimento molto rapido all’Eur del museo d’arte orientale ’Giuseppe Tucci’».
Oggi al Pigorini nella mattinata spiegherà la mission della nuova «creatura», ma anticipando i temi della conferenza ha intanto liquidato ogni atteggiamento dubitativo come fake news e invitato tutti a seguire l’andamento della questione solo sul sito ufficiale, altrimenti si rischia di «mettere in cattiva luce un progetto ambizioso». Meglio abbandonare quindi ogni velleità di libero pensiero.

USCENDO DAI CAVILLI economici (l’operazione comunque non è da poco, movimenta dieci milioni di euro), dagli affitti esosi o dimezzati, dalla possibilità di risparmio o meno, dalle trame delle burocrazie, dalla sacrosanta necessità della messa a norma (ma dove farla è scelta sempre politica) e dai sogni di futuri musei rispondenti alla «società globalizzata» e alle sollecitazioni della «realtà aumentata», il discorso da affrontare di fronte al pericolo che il Mnao perda la sua identità – e i criteri scientifici sui quali poggia il suo palinsesto storico – è e resta squisitamente culturale. Per esempio, va ribadito che i suoi preziosi reperti non sono una macchina da spremere per far mostre esportabili. Fino a che la nuova sede non sarà pronta, e ci vorrà tempo e denaro (compreso quello per le casse climatizzate), alcuni oggetti saranno infatti i protagonisti di una serie di esposizioni temporanee che necessariamente smembreranno il loro «discorso» museale. Qualcosa forse si lascerà per strada: alcuni oggetti in prestito, nell’incertezza, potrebbero tornare ai loro proprietari.
Intorno al Mnao, poi, si era creato un polo per gli studiosi delle civiltà orientali grazie all’università (oggi spostata altrove) e alla libreria Orientalia (anch’essa ha dovuto riconvertirsi dopo la migrazione della facoltà di lingue e culture orientali). Era una triangolazione che interpretava al meglio ciò che negli anni era diventato il quartiere Esquilino con la sua vocazione multietnica, nata fortuitamente e attualmente abbandonata agli esiti peggiori. La presenza del museo, pur se ormai in solitaria – e se promossa e valorizzata – poteva rappresentare una sorta di baluardo al degrado, un bene comune che arricchiva il territorio e la sua cittadinanza, puntando anche sulla sua contiguità con scuole che accolgono i figli delle diverse comunità residenti.

IL RIALLESTIMENTO ALTROVE tradisce così uno spirito culturale che dovrebbe appartenere al ministero che porta questo nome. Non potrà nemmeno ricreare, in spazi asettici, quella stessa idea di viaggio verso cui vengono spinti i visitatori dalle vetrine curvilinee (come fossero la prua di una nave) pensate dall’architetto Giovanni Belardi quando negli anni ’90 fu ridisegnata la disposizione dei manufatti.
Oggi sarà la prima giornata di chiusura del Mnao e comincerà l’imballaggio dell’imponente collezione. Un’operazione che presenta notevoli fattori di rischio e, non essendo ancora pronta la nuova sede, molti pezzi (quelli che non saranno esposti nelle mostre annunciate) rimarranno nelle casse fino a data da destinarsi.

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Tra i tesori del museo, si segnalano alcune placchette iraniane (in bitume e argento) scopertesi essere poi finimenti per le briglie dei cavalli, la rara collezione di arte yemenita della donazione Tucci (dopo il principio di incendio dello scorso anno del condizionatore, non erano più fruibili poiché non si era voluto dotare il luogo delle bocchette per gli idranti, con l’idea del trasloco imminente), le lastre che circondavano il cortile del palazzo reale e formavano un poema per la dinastia di Mosud III, tredicesimo sovrano degli ghaznavidi. che governò tra il 1099 e il 1115.
Svanisce poi del tutto il disegno generale, il progetto scientifico, il dna del Museo d’arte orientale che, accorpato con gli altri, perderà inevitabilmente la sua memoria e storia. Senza contare poi che, a causa della scarsità dei concorsi banditi dal ministero, e con il pensionamento alle porte di molti dirigenti, mancano gli specialisti. Gli oggetti etnografici non sono la stessa cosa di quelli artistici. Il rischio alto è che il MuCiv imploda. Un po’ come accaduto al Mucem di Marsiglia, finito in stato confusionale rispetto ai propri obiettivi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SCHEDA

Il Museo nazionale d’arte orientale intitolato a Giuseppe Tucci (che contribuì alla sua nascita) vide la luce nell’ottobre del 1957 con decreto del Presidente della Repubblica: il pubblico poté iniziare a girare per le sue sale a partire dal giugno del 1958 quando fu inaugurato nelle sale di Palazzo Brancaccio in seguito a una convenzione tra il Ministero della pubblica istruzione e l’Istituto italiano per il medio ed estremo oriente (Ismeo), che metteva a disposizione le sue raccolte.
Le difficoltà di organizzazione di un museo del genere – con una così vasta area geografica da coprire, oggetti di diversa provenienza (scavi, acquisti «consapevoli» e donazioni) e con un arco temporale altrettanto espanso – dalla preistoria ai giorni nostri – furono ben presenti fin da subito al direttore Domenico Faccenna. Che non si arrese: questo archeologo alla guida dell’istituto dal 1958 al 1977, che diresse nello Swat, Pakistan, fino al 1995 scavi e ricerche per favorire la conoscenza dell’architettura e dell’arte buddhista del Gandhara, si pose il problema principale della mission di un museo, la sua scientificità e la trasmissione del sapere. Il Mnao si prefigurò immediatamente come il primo in Italia ad essere impostato seguendo criteri specifici, nonostante fosse arduo – di fronte al concetto di arte come creazione individuale tipicamente occidentale – isolare oggetti e manufatti e operare una netta distinzione. Negli anni, divenne il punto di riferimento e raccordo delle soprintendenze per pareri, studi, acquisti, indirizzando per decenni le scelte stesse del ministero nel campo dell’arte orientale. Così, il primo nucleo del Mnao nato dalle collezioni Ismeo che aveva dato parte della propria sede, andò via via estendendosi.
Fino ai lavori di restauro filologico che interessarono anche il palazzo Brancaccio, promuovendone la tutela storica, dei primi anni ’90 e all’accrescimento delle collezioni negli anni Duemila con altri pezzi provenienti dall’eredità Tucci, e prestiti privati.