Sta circolando negli ambienti dell’estrema destra, dopo la traduzione in italiano, Valhalla Express. La storia di un nazionalista, rivoluzionario e volontario ucraino nel Battaglione Azov. Nome di battaglia Woland (Italia Storica, pp. 230, euro 25). Un lungo memoriale edito da una casa editrice specializzata nella diffusione di opere a sfondo bellico con particolare riguardo alle forze armate dell’Asse nel Secondo conflitto mondiale. Tra i curatori Domenico Di Tullio, avvocato ed esponente di CasaPound. Si tratta di un racconto, tra Kiev, Kharkiv e Mariupol, che vede protagonista Woland, questo il suo nome di battaglia, antica definizione del Diavolo nel folklore germanico. Woland è stato un ingegnere mancato, espulso dall’Università a seguito di numerose risse, passato dai gruppi naziskin, in lotta contro «gli immigrati del Caucaso» e gli «Antifa», e dalle file degli Ultras impegnati a «disperdere le parate gay». alle organizzazioni paramilitari ucraine come Pravyj Sektor dove si è addestrato alla guerriglia con armi da fuoco, assaltato sedi comuniste e marciato inquadrato, partecipando anche a cerimonie iniziatiche pagane «con torce e stendardi» con il sottofondo delle musiche wagneriane. L’approdo al Battaglione Azov sarà successivo, dopo l’annessione della Crimea da parte della Russia.

LUNGO QUESTO PERCORSO, Woland rimane affascinato dal Mein Kampf di Adolf Hitler, lettura da lui stesso definita fondamentale per «la mia vita», e dagli scritti di Mykola Stsiborskyi (autore di Naziocrazia), un nazionalista ucraino che si batteva, tra gli anni Trenta e Quaranta per una società e uno Stato «organici» che abolissero la lotta di classe in nome dello sviluppo nazionale.
Il titolo del libro si rifà a un grido «Al Valhalla!», pronunciato da un comandante prima di una battaglia nel Donbass, come se fosse in partenza un treno diretto verso il paradiso un tempo dei guerrieri norreni, ossia dei germani provenienti dai territori scandinavi, caduti eroicamente in battaglia. Siamo in pieno culto ed esaltazione della «bella morte». Per Woland il combattimento è «bellissimo», «ti ipnotizzava, affascinava e non ti lasciava più», «una visione meravigliosa. La trincea, l’oscurità e poi il fuoco».

PIÙ DI UN CAPITOLO è dedicato alla «battaglia di Piazza Maidan» dell’inverno 2013-2014, tratteggiata non come una «rivoluzione», ma come un «colpo di Stato», dove Woland aveva deciso di battersi con altri non in nome dei «valori europei», che «non ci interessavano». «Eravamo piuttosto degli avversari di questi stessi valori», sostiene. Si schiera solo perché è contro «i bastardi» che governavano «il Paese». Woland odia tutti «i politici», definisce il Parlamento l’espressione degli «uomini d’affari», e giudica i nuovi governanti saliti al potere solo come «più scaltri, duri e intelligenti dei loro predecessori». Ricco l’apparato fotografico con immagini, anche di Woland impegnato in battaglia a Mariupol, dove il racconto termina nell’estate del 2014, ma anche ritratto in sfilate e marce, tra insegne e simboli, dalla croce celtica al «dente o gancio del Lupo» (il Wolfsangel), il simbolo del Battaglione Azov, tratto dallo stemma di alcune divisioni delle Waffen-SS.

LA POSTFAZIONE di Domenico Di Tullio ci restituisce il senso politico dell’operazione editoriale. Di Tullio si dichiara «entusiasta» del «cammino impetuoso dell’Azov» e del suo «addestramento militare tutt’uno con sua la crescita culturale e spirituale», contro il «pensiero unico mostro assoluto che dobbiamo e vogliamo combattere». Un’identificazione politica e ideologica, un modello di vita e di lotta non nascosto per i «nazional-rivoluzionari» di casa nostra.