Un museo verde e a cielo aperto
PATRIMONIO Parla Simone Quilici, direttore del Parco archeologico dell’Appia Antica. «Nell’immediato futuro sarà necessario ripensare i servizi per i cittadini, con abbonamenti annuali. I pini non sono autoctoni, li ha piantati l’archeologo e architetto Canina: il paesaggio ha un valore culturale e non solo naturale»
PATRIMONIO Parla Simone Quilici, direttore del Parco archeologico dell’Appia Antica. «Nell’immediato futuro sarà necessario ripensare i servizi per i cittadini, con abbonamenti annuali. I pini non sono autoctoni, li ha piantati l’archeologo e architetto Canina: il paesaggio ha un valore culturale e non solo naturale»
L’Appia è tra i miti fondanti della cultura europea. I romani la concepirono dritta come una spada, per dare slancio alla marcia degli eserciti. La percorrevano i pellegrini medioevali. Nel Rinascimento, Raffaello e Pirro Ligorio misuravano il classicismo nei suoi monumenti; i viaggiatori del Grand Tour vi cercavano invece se stessi, nel Settecento. Sugli antichi basolati nacque il primo museo a cielo aperto d’Italia: era il 1851 quando Luigi Canina creò setti murari nei quali incastonò fregi, iscrizioni e cornicioni, quasi fossero pannelli espositivi. Il piano regolatore del 1931 la dichiarò zona di rispetto – il che non vuol dire inedificabile.
E, infatti, si moltiplicarono con ferocia ville finché, nel 1953, Antonio Cederna prese a denunciare sul quotidiano Il Mondo i «gangsters dell’Appia». Nel 1965, finalmente, l’area fu dichiarata «verde pubblico». Eppure, dal 1965 al 2000, l’edilizia abusiva subita è stimata in oltre un milione di metri cubi. Lo dimostra uno studio realizzato sulla base di sovrapposizioni cartografiche da Vezio De Lucia e dall’attuale direttore del Parco archeologico dell’Appia Antica: l’architetto Simone Quilici.
Possiamo affermare che i «gangster dell’Appia» sono stati sconfitti?
Sono cambiati: negli ultimi venti anni si è speculato meno, ma sono sorte attività commerciali e artigianali spesso registrate come vivai – le uniche permesse dalla legge – e alcune ville sono state allargate. Una quantità enorme di condoni del 1985 è ancora da valutare. Essendo la tutela paesaggistica delegata dallo Stato alle regioni, e a volte da queste rimessa ai Comuni, molte pratiche risultano inevase. Durante il lockdown arrivavano faldoni cartacei da Risorse per Roma, che le gestisce da parte del Campidoglio: nemmeno era facile maneggiarle.
In città, l’Appia ha tre teste. La Villa di Massenzio e il Museo delle Mura sono comunali. La maggior parte dei beni archeologici è di pertinenza dello Stato, mentre alla Regione compete un parco naturalistico di 4500 ettari, esteso anche nei territori di Ciampino e Marino. Esiste un conflitto teorico tra ambiente e cultura?
Posso rispondere con un esempio. I pini sono stati piantati da Canina e quindi il paesaggio ha valore culturale e non solo naturale. Il pino non è autoctono: nella campagna romana la vegetazione spontanea è costituita da querce e lecci. Gli alberi, tuttavia, invecchiano e muoiono. Quando un pino deve essere sostituito bisogna operare una scelta: il parco naturale prevede l’utilizzo di piante locali, noi dobbiamo rispettare l’ideale di un paesaggio antropizzato. La soluzione è uno statement of significance: una dichiarazione sull’interesse di uno specifico luogo. Si tratta di un compromesso assolutamente percorribile, non c’è conflitto.
Il Parco Regionale esiste dal 1988, quello archeologico dell’Appia Antica dal 2016. È un istituto giovane e deve irrobustirsi. L’organico è sufficiente?
Dovremmo essere il doppio, soprattutto in amministrazione. Tra i funzionari, contiamo sette archeologi, responsabili scientifici dei siti, e sette architetti, che con loro si occupano di tutela in base a quanto stabilito dalla riforma Franceschini. L’età media è di quarant’anni; molti sono stati selezionati con l’ultimo concorso.
Al momento, i tecnici sono in smart working: lo smistamento delle pratiche si è velocizzato, ma il lavoro è aumentato. Soltanto i custodi non hanno mai smesso di raggiungere i monumenti, per evitare furti e vandalismi, nei limiti delle possibilità. Di notte, intorno al 20 marzo, lo street artist Hogre ha usato la vernice a spray su una tamponatura della cisterna della Villa delle Vignacce, al Parco degli Acquedotti.
Con quali modalità ricominceranno le visite e i cantieri?
È stata prevista una riapertura ogni giovedì: le Tombe Latine l’11; il 18 la Villa di Capo di Bove; il 25 Cecilia Metella e la Villa dei Quintili: i due siti a pagamento, dotati di termo-scanner, con entrate e uscite distinte e un numero di ingressi contingentato. Non sarà invece possibile mettere in sicurezza gli ipogei delle Tombe Latine, per via dell’umidità e della scarsa ventilazione. Stiamo cercando di sopperire con la realtà virtuale, pubblicando rubriche quotidiane sui social, tra le quali «Voci dall’Appia» con i suoi approfonditi video.
I cantieri sono fermi all’agosto del 2019, quando furono bloccati dall’accorpamento alla soprintendenza del parco, che per sei mesi ha così di nuovo perso la sua autonomia, ristabilita definitivamente a febbraio. Il lockdown ci ha rallentati, ma abbiamo approvato il bilancio e sono stati radiati i residui dell’anno scorso, di cui possiamo tornare a beneficiare. Ora ripartiamo, seppure con circa dieci mesi di ritardo sulle spalle.
Con la bella stagione torneranno anche i grandi eventi?
È confermato il festival estivo Dal Tramonto all’Appia, nell’area di Cecilia Metella. A settembre organizzeremo un festival jazz; a ottobre, la mostra Raffaello e l’Antico, incentrata sull’elaborazione moderna del classicismo.
Consideriamo inoltre fondamentale l’esposizione multimediale a cura di Paolo Rumiz L’Appia Ritrovata, inaugurata presso il Casale di Santa Maria Nova il 4 marzo e chiusa quattro giorni dopo (Rumiz è l’autore del libro dedicato alla grande via europea, che ha percorso a piedi da Roma a Brindisi, uscito per Feltrinelli, ndr). Coordinando mostre itineranti e proponendo studi concreti, il parco dovrà costruirsi un ruolo propulsivo per la valorizzazione del cammino che da Roma porta a Brindisi: quasi 600 km che in troppi continuano a confondere con la Strada Statale 7. Abbiamo ricevuto dei finanziamenti per restaurare un tratto al di fuori dal raccordo anulare, in zona Fioranello, e uno dei casali per i custodi realizzati nell’ambito del museo ottocentesco di Canina, di cui vorremmo recuperare la memoria.
I biglietti acquistati consentono al parco l’autosufficienza?
Parliamo di sessantamila visitatori l’anno e novantamila euro di introiti. Fare cassa per una sostenibilità completa non è nelle corde dell’Appia, uno spazio periferico e di nicchia rispetto ai circuiti centrali: un turista presente a Roma per pochi giorni non può scoprirla. Il nostro concessionario, oltretutto, è in proroga e il suo personale in cassa integrazione. Nonostante un servizio di altissimo livello, abbiamo l’impressione ci percepiscano come un fardello: del resto, immagino sia il Colosseo il core business di qualsiasi società voglia legittimamente guadagnare.
Il turismo nazionale subirà una flessione, ma trecentomila romani continueranno a vivere nel quartiere Tuscolano. Se non altro per cause di forza maggiore, nell’immediato futuro sarà necessario ripensare servizi per i cittadini, puntando su un abbonamento annuale da dieci euro e sulla collaborazione con le associazioni del territorio.
Sarà più efficace anche la collaborazione tra Parco statale e Parco regionale?
Assolutamente, perché la priorità è rafforzare un senso di identità unitario. La tutela archeologica spetta a noi, quella naturalistica a loro. Da anni condividiamo la salvaguardia del paesaggio, è giunto il tempo di lavorare insieme per la valorizzazione. Abbiamo iniziato con un progetto regionale finalizzato al rilascio di un app per itinerari a piedi e in bicicletta e presso i principali varchi di accesso abbiamo sistemato venticinque pannelli che riportano semplicemente il nome di Parco dell’Appia. Un caso simile al nostro è rappresentato da Villa Reale a Monza, di proprietà dello Stato, della Regione e del Comune. Lì hanno costituito un consorzio. Una soluzione dovremmo cercarla anche noi.
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