Direttamente dagli anni Settanta arriva inaspettata, proprio in questi giorni nelle librerie italiane, un’intensa riflessione di Mario Perniola (Asti 1941 – Roma 2018) sulle forme del pensiero di Sigmund Freud – Freud, l’inconscio come opposto (1892-1905), Mimesis, pp. 102, euro 10. Si tratta di un testo scritto in vista di «un progetto editoriale più vasto, avrebbe dovuto comprendere anche una sezione sul pensiero di Nietzsche e un saggio su Heidegger», ci informa subito il curatore di questo volume, Milosh F. Fascetti, al quale Perniola consegnò il dattiloscritto personalmente, quindi oltre cinque anni fa.

IL PROGETTO non fu più ricomposto, benché le sue parti trovassero varie collocazioni e diverse occasioni editoriali. E alcune di queste pagine, quelle sul sogno e sul motto di spirito, proprio negli anni ’70 furono affidate alla rivista Il Verri, fondata e diretta da Luciano Anceschi: per cui ora si può leggerle restituite al loro contesto originario.
Come indicano le date che appaiono nel titolo, Perniola in questa riflessione si preoccupò anche di fornire una lettura storicizzata del modo con cui Freud, a fini clinici ma con forti implicazioni filosofiche e addirittura retoriche, elaborò una figura evidentemente indocile com’è quella dell’inconscio, ch’è per definizione qualcosa di cui non si sa, ch’è doloroso dire e spinoso a vedersi, e tuttavia è corporeamente reale, materialmente presente.

L’assunto da cui parte il ragionamento è relativamente semplice: cosa succede se invece di pensare l’inconscio come identità nascosta ma sostanziale lo pensiamo come radicale differenza dell’identità? Questa alterità viene chiamata opposto, la cui natura, secondo Perniola, Freud indagò in tutti i sensi di questa parola. In quanto nome andrebbe a indicare un che di nuclearmente esistente, che si distingue dall’identità (qualsiasi forma prenda e con qualsiasi mezzo si costruisca), mentre in quanto verbo indicherebbe un’azione di collocamento antagonistico rispetto alle immagini identitarie, e in un certo senso pronta a reagire a qualsiasi tentativo di stabilizzare l’immagine di sé.

La patologia, in fondo, nascerebbe dal non saper conciliare né tantomeno accettare la contraddizione permanente cui si trovano esposti il carattere e la mente. Da qui l’importanza di indagare alcuni processi fisiopsichici involontari come il sogno e il riso, le immagini oniriche e i motti di spirito, che si articolano sempre in un linguaggio, che manifestano la diversità sconosciuta e il contrario del significato.

Forse è una sintesi un po’ troppo semplice o magari semplicemente affrettata del discorso e dell’indagine di Perniola, che però introduce rapidamente al perché dell’interesse per la figura dell’inconscio come opposto. Ciò che il filosofo cerca nel pensiero freudiano sono tre aspetti della realtà psichica, o tre concetti descrittivi: il conflitto, il mistero e l’equivoco, una triade cara, anche se non esclusiva, a tutta la speculazione filosofica di Perniola successiva a quegli anni.

Nella conciliazione a tutti i costi e nella negazione dell’alterità, infatti, vedeva una delle dannose pigrizie del pensiero metafisico, in grado di suscitare anche orientamenti politici ed etici assolutisticamente dannosi se non solo patetici. Mentre per quanto riguarda il mistero e l’equivoco, Perniola non si sarebbe mai arreso ai tentativi di sminuirne la portata ermeneutica e la capacità di arricchire i processi di significazione: rinunciare all’enigma, come soglia dell’inversione e del ritorno gli sarebbe parso un suicidio intellettuale, così come l’appianamento della molteplicità, dono dell’equivoco, un vero impoverimento della realtà.

MA POTENDO INDICARE in un unico libro il momento di più chiara emersione della ripresa di queste riflessioni freudiane degli anni Settanta, andrebbe scelto Transiti (Cappelli, 1985), che portava il rivelativo sottotitolo «come si va dallo stesso allo stesso» (poi sostituito con «filosofia e perversione» nella riedizione del 1998). L’apparente illogicità di un movimento immobile pare ritrovare una matrice proprio nella figura dell’inconscio come opposto, o come opposizione, ch’è l’immagine della contemporaneità di due apparenti contrari: il riconoscimento e il disconoscimento (anche del sé).