Un mondo senza sprechi è possibile
Il fatto della settimana Per la Fao lo spreco di cibo pesa sull’impronta ecologica più di 3,3 gigatonnelate di gas serra all’anno, 250 km cubi di acqua e 1,4 miliardi di ettari di suolo. Per ridurre questa vergogna si moltiplicano pratiche virtuose
Il fatto della settimana Per la Fao lo spreco di cibo pesa sull’impronta ecologica più di 3,3 gigatonnelate di gas serra all’anno, 250 km cubi di acqua e 1,4 miliardi di ettari di suolo. Per ridurre questa vergogna si moltiplicano pratiche virtuose
L’obiettivo 12 dell’Agenda Onu 2030 per lo sviluppo sostenibile chiede di ridurre le perdite e gli sprechi di alimenti lungo le filiere di produzione e di approvvigionamento, fino al consumo finale. Significa aumentare l’efficacia e la sostenibilità dei sistemi alimentari.
La preoccupazione per lo sperpero cresce fra il 2007 e il 2011, parallelamente al timore – indotto anche all’aumento dei prezzi delle derrate agricole – di non riuscire a nutrire una popolazione crescente. Rispetto all’obiettivo della sicurezza alimentare e della nutrizione, gli interventi più efficaci sono quelli rivolti, nei paesi a basso reddito, alle piccole unità agricole che il cibo non lo sprecano ma perdono parte dei raccolti.
INVECE, SULL’OBIETTIVO DELLA RIDUZIONE DEI GAS A effetto serra, ha un impatto maggiore il taglio degli sprechi ci cibo a valle della catena. Una migliore efficienza nell’uso delle risorse riduce ovviamente le emissioni di gas serra per unità di cibo consumato. L’impronta climatica della perdita e spreco alimentare è legata sia al processo di produzione degli alimenti persi, sia alle emissioni di metano provocate dalle discariche incontrollate. Ecco l’impronta ecologica della perdita e spreco di alimenti secondo uno studio Fao del 2013: più 3,3 gigatonnellate di gas serra l’anno, uso dell’acqua pari a 250 chilometri cubi (il 6% dei prelievi totali) e occupazione di suolo pari a 1,4 miliardi di ettari.
CHE FARE, UNA VOLTA INDIVIDUATI I PUNTI CRITICI? Nelle situazioni impoverite occorre investire in infrastrutture di stoccaggio e trasporto per evitare il deperimento prima dell’arrivo ai mercati, peraltro spesso caotici e privi di catena del freddo. In Ghana si è rivelata efficace la costruzione di silos in terra cruda, molto economici, per il mais. In Benin e Mozambico, silos metallici per mais e legumi hanno dato buoni risultati ma per affrontarne il costo sarebbero necessari crediti vantaggiosi per i produttori. In Kenya, Tunisia, Tanzania, impianti di refrigerazione solare permetterebbero la riduzione delle perdite senza aumentare le emissioni climalteranti, ma il costo di installazione è una barriera decisiva. Ricordiamo poi l’insistenza del Burkina Faso rivoluzionario di Thomas Sankara per l’essiccazione solare di frutta e ortaggi, che nella corta stagione del raccolto andavano persi. Negli Stati uniti invece una start-up ha inventato una soluzione green senza plastica né catena del freddo per rallentare l’ossidazione e l’invecchiamento dei vegetali.
CERTO TUTTO È RESO PIÙ COMPLICATO DA VARI FATTORI, oltre alle dinamiche dei prezzi: i cibi più ricchi in micronutrienti sono anche i più deperibili; le diete sane richiedono di gettare il cibo deteriorato; la salute di produttori e consumatori impone attenzione per i cibi contaminati magari dalle sostanze chimiche destinate a combattere gli attacchi post-raccolto a parte degli insetti. Buona notizia: l’università di Pisa sta mettendo a punto repellenti alternativi a base di oli essenziali da piante aromatiche per depositi e dispense.
Sul lato dello spreco, si richiedono sinergie fra attori pubblici e privati. In questi giorni la Fao (che sta elaborando un Codice di condotta per le perdite e gli sprechi alimentari) ha rinnovato l’alleanza con l’Unione mondiale dei mercati alimentari all’ingrosso (Wuwm) – oltre 160 mercati in tutti i continenti – per «garantire forniture di alimenti sani e freschi in un mondo sempre più urbanizzato». E’ poi certo che i piccoli mercati contadini, i gruppi d’acquisto e la vendita diretta sono molto efficaci anche nel contrasto allo spreco per quelle paradossali ragioni «estetiche» che condannano a morte alimenti buoni non calibrati al millimetro, rifiutati dalla grande distribuzione.
FRA I VARI INTERVENTI NEI PAESI OCCIDENTALI, il Regno unito, in 5 anni di campagna «Love food hate waste» ha ridotto lo spreco di oltre il 20% con un guadagno di 86 milioni di sterline per gli enti locali e di 6,5 miliardi per i consumatori. La Francia nel 2016 si è dotata della prima legge al mondo per la prevenzione degli sprechi, vietando ai supermercati di gettare via o distruggere l’invenduto. L’Italia ha seguito pochi mesi dopo con la legge 166 per la donazione degli alimenti scartati ma ancora consumabili e delle eccedenze, nonché dei farmaci. La Piattaforma europea sulla perdita e lo spreco di cibo varata nel 2016 si rivolge a tutti gli attori coinvolti, pubblici e privati, «dal campo alla forchetta» . In un quartiere povero di Boston, il distributore no profit Daily Table riesce a vendere a un prezzo basso, competitivo con le alternative spazzatura, cibi sani scartati dal circuito commerciale. In Cina, alla campagna «Pulisci il tuo piatto» hanno aderito centinaia di ristoranti che fra l’altro offrivano sconti ai clienti virtuosi. In Macedonia una rete civica per la riduzione dei rifiuti a livello nazionale si focalizza dal 2017 sul risparmio di cibo favorendone anche donazioni on line. In Egitto e Giordania, invece, erano i sussidi alimentari relativi al frumento a provocare sia fenomeni speculativi sia un certo spreco domestico; sono stati ricalibrati: a essere sovvenzionato ora è il pane e per un tot massimo a persona.
LA RIVISTA SPECIALIZZATA ONLINE «URBAN FOOD FUTURES» pone un dilemma: se si azzerasse lo spreco alimentare non rimarrebbe più nulla da redistribuire agli indigenti. Soluzione? Anche in un sistema alimentare durevole ci sarà una quota di surplus: occorrerà recuperarla al massimo. E proprio al fondo, per gli scarti non ulteriormente comprimibili, rimane indispensabile un buon compostaggio. Lungo è il cammino.
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