Cultura

Un mondo da rammendare

Un mondo da rammendare

ITINERARI CRITICI Riflessioni intorno a «Dove sono?» di Bruno Latour (Einaudi) e «Cosa può un compost» di Antonia Anna Ferrante (Luca Sossella Editore). Vivere è poter creare e mantenere le condizioni di abitabilità «con» Terra, e non «su» Terra. Non esiste nessun ambiente, perché un organismo non è distinguibile da ciò che lo circonda, come il ragno non è separabile dalla ragnatela o la termite dal termitaio. Ci si domanda cosa ce ne facciamo di questa presa di coscienza ecologica e come evitare di compiacere una scrittura e una cultura che continuano ad astrarre ed estrarre i corpi

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 4 giugno 2022

La natura riapparsa all’orizzonte nell’emergenza pandemica ci ha permesso di aprire una finestra tanto illusoria quanto funzionale all’idea di un «dentro» che in una certa parte di mondo ci ostiniamo ancora a difendere. Ma, come tanti Gregor Samsa, la contingenza storica ci pone di fronte a un ossimoro: prigionieri di una metamorfosi, nel confinamento forzato ci siamo liberati dall’idea di infinito. Siamo sempre stati eterotrofi, incapaci di nutrirci da soli, mai autonomi né autoctoni. Eppure, solo adesso sembriamo avvertire come un peso il carapace che portiamo addosso, o meglio, intorno. In Dove sono? Lezioni di filosofia per un pianeta che cambia (Einaudi, pp. 182, euro 15, traduzione di Simona Mambrini), Bruno Latour accompagnato dal racconto di Kafka racconta il «conflitto di generazione» (engendrement) che oggi porta alla luce l’infrastruttura del lavoro riproduttivo di cui si compone Terra, la vita che si fa e si mantiene: vivere è creare e mantenere le condizioni di abitabilità con Terra, e non su Terra, perché Terra comprende sia gli agenti che gli effetti delle loro azioni, di cui gli umani sono solo una piccola parte. Ogni processo vivente su Terra è un artificio che coniuga invenzione e libertà.

«SU TERRA non c’è niente di completamente ‘naturale’, se per naturale si intende qualcosa che non è stato toccato da nessun essere vivente: tutto è stato sollevato, disposto, immaginato, sostenuto, intrecciato da agentività», scrive Latour. La continuità, la panoramica, il piano sono illusioni, perché ogni cosa è interrotta, articolata e ri-composta da attori-rete, gli olobionti della biologia. Non esiste effettivamente nessun ambiente, perché un organismo non è distinguibile da ciò che lo circonda, come il ragno non è separabile dalla ragnatela o la termite dal termitaio. Quello che abbiamo sempre definito ambiente è il tessuto della vita in comune, tramato dai commensali di Terra.
Chi ha già letto altri testi di Latour, sa che a sentirsi schiacciare da questo corpo bestiale e inaspettato è il Soggetto verticale, evanescente e slegato di una Modernità distillata che non è mai accaduta e alla quale non c’è dunque modo di fare ritorno.

L’Eroe che non si regge più in piedi e che finisce per divenire patata, informe e infagottato, nel recipiente de La teoria narrativa della sacca della scrittrice femminista di fantascienza Ursula LeGuin, scrigno di semi che Antonia Anna Ferrante traduce in calce al suo fertile pamphlet Cosa può un compost. Fare con le ecologie femministe e queer (Luca Sossella, pp. 126, euro 10). Al quale ci porta, inevitabilmente, il seguente interrogativo: se la metamorfosi dell’umano universale che diviene patata, quello che una volta era l’Eroe armato dei racconti di dominazione più o meno finzionali, è il tema di queste lezioni latouriane, chi è il destinatario? Stando a quanto scrive Ferrante, infatti, che si com-posiziona tra ecologia politica e transfemminismo, solo partendo da un discreto privilegio si può trarre una lezione dalla congiuntura in cui ci troviamo.

DA UN LATO, c’è chi vive per la prima volta l’emergenza, dall’altro chi, umano e non, è sempre stato a contatto con l’emergere imprevedibile del mondo. Stare «dentro» imparando a «uscire dentro», cioè situarsi in modo diverso nello stesso luogo, come esorta a fare Latour, richiede un tempo e uno spazio sicuri dove potere anche restare, presuppone di non dovere lottare per il diritto a un rifugio, a respirare aria pulita, o anche solo a respirare e basta. L’invito di Latour a trarre una lezione dal mondo che cambia, e dismettere i panni degli estrattori per farsi semmai rammendatori, riguarda coloro che vivono tutto questo come un cambiamento epocale, gli stessi che trovano conforto nella definizione di Antropocene in una disperata mossa per ricentralizzare l’umanità che spacciano come universale. Quelli che, quando non erano moderni ma si raccontavano di esserlo, non si accorgevano neppure che i rammendatori li circondavano da sempre. Se chi non ha le stesse possibilità non può essere chiamato a sentirsi responsabile allo stesso modo, siamo sicuri che «i terrestri si riconoscono tutti sulla stessa barca», come scrive Latour? Chi sono questi «tutti»? Uno yacht che approda e un gommone che affonda sono la stessa barca? Trasportano, o sono, gli stessi «agenti»?

Il merito del libro di Antonia Anna Ferrante è quello di non indulgere al romanticismo del compost, che oggi rischia di diventare un nuovo termine-ombrello o, peggio, l’ennesimo trend di mercato. Nel libro infatti, il compost come modello di pensiero critico – nessun tranello analogico, nessuna colonizzazione metaforica, anzi un meccanismo di radicale smontaggio di entrambi – funziona in primo luogo per interrogare l’etica della ricerca, come la teoria della sacca di Le Guin si fa tecnica di scrittura posizionata in precise ecologie e pratiche. Ferrante (da terrona, non solo terranea) si domanda cosa ce ne facciamo di questa rinnovata presa di coscienza ecologica e come evitare di compiacere una scrittura e una cultura che continuano ad astrarre/estrarre i corpi. Il queer twist epistemologico che propone non soltanto riposiziona l’umano nell’ambiente – che come ricorda Latour non esiste senza chi si posiziona –, ma si prende cura, nella teoria, degli scarti che eccedono e attraversano l’umano.

LA POTENZA del compost è dunque etica e politica, perché inquina il baluardo del sapere trasparente e dei suoi portavoce che possono ancora parlare (anche di catastrofi) senza sporcarsi le mani, separando teoria e pratica, in definitiva senza implicarsi negli attaccamenti che ci rendono capaci di risponderci e riguardarci a vicenda. Per mantenere i quali non basta la premura, serve la cura: riprendendo la definizione di «materia di cura» (matters of care) di Maria Puig de la Bellacasa, che ispessisce quella di «materia di premura» (matters of concern) di Latour, Ferrante dice che la pratica femminista della cura è un verbo, non un sostantivo, un prestare attenzione che non smette di porre domande: su chi si prende cura, di chi, con quali conseguenze.

Latour scrive – qui finalmente – che grazie ai femminismi il corpo si è insinuato in tutti gli interstizi della res extensa facendo di questo tessuto del mondo la nuova posizione di default (e questo libro deve molto, e lo dichiara, ad Haraway, Tsing, Despret e Stengers). Ferrante va oltre, dicendo che il verme del femminismo ha posto anche le condizioni di possibilità, l’humus, delle Environmental Humanities, fermentando all’interno delle monoculture intensive dell’accademia. «Il primo dispositivo culturale fu probabilmente un recipiente», scrive Le Guin, anche se abbiamo sempre «sentito parlare di tutti i bastoni, le lance e le spade, di cose per picchiare, infilzare e colpire, cose lunghe e dure, ma non abbiamo sentito parlare della cosa dove mettere le cose, il contenitore della cosa contenuta». Gli scarti del compost, e così il lavoro di tessitura dei femminismi e il lavoro di cura delle femministe, non fanno prodotti da mettere in una sacca: questi scarti, questo lavoro, queste pratiche di cura, insieme, fanno la sacca che funziona come infrastruttura del comune.

LA RIFLESSIONE di Ferrante, che da Spinoza arriva a José Esteban Muñoz (del quale ha recentemente co-tradotto con Samuele Grassi Cruising Utopia, Nero 2022), attraversando Bennett, Haraway, Barad e ovviamente il Latour del manifesto composizionista, racconta come quest’ultimo la materia vibrante e «informata», l’immanenza, l’irrilevanza delle differenze di scala, la fallacia delle dicotomie, l’eterogeneità del comune, l’inesistenza del circoscrivibile e circoscritto.
In più, però, l’approccio transfemminista e queer di Ferrante presta attenzione alla relazionalità in un modo che non è solo quello del mutualismo simpoietico, ma quello del soggetto imprevisto, che a ogni parola sfida la narrazione patriarcale, coloniale e capitalista dell’origine, della riproduzione e del destino dell’umano (che non sarebbe riservato a tutti gli umani, secondo tale narrazione). Infrastruttura senza la quale non esisterebbero, oggi, né il libro di Latour né quello di Ferrante, e neppure noi che ne teniamo fra le dita le parole per portarle ancora un po’ più in là.

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