Come pagina bianca di Pasquale Esposito, edito da Porto Seguro (pp. 124, euro 14), è un romanzo epistolare, anche se non prevede una corrispondenza nel vero senso della parola.
Il nome del mittente è sconosciuto: sappiamo che è ricoverato in un ospedale psichiatrico e che la carta e la penna per scrivere sono una gentile concessione del direttore dell’Istituto, una figura inizialmente positiva che si rivelerà poi un nemico. La ragione per cui il protagonista è rinchiuso è un disturbo ossessivo aggravato dalla principale attività a cui ha dedicato la sua vita e di cui è stato anche docente, le mnemotecniche: «all’età di diciassette anni riuscivo ad associare luoghi e immagini alle cose da ricordare, fino a mantenere a mente il contenuto di dodici libri di storia, sette di geografia, tabelle di calcoli trigonometrici e logaritmi, versi di poeti, formule di chimica». Questa capacità strabiliante deriva anche dal fatto che il padre, quando lui era un bambino, gli imponeva per punizione di ripetere interi brani dell’Apocalisse a memoria. O meglio, il fatto che riuscisse a farlo rappresentava l’opportunità di interrompere la segregazione in cantina ed evitare ulteriori pene corporali.

INSIEME ALL’INFERMIERE che ogni giorno gli porta da mangiare e che infine scriverà per lui le lettere sotto dettatura, Girolamo, a cui ha assegnato questo nome di fantasia per via di un’associazione col santo, il padre è l’unico altro personaggio di cui sappiamo qualcosa: che era un uomo ligio alla morale, vestito sempre di scuro, un fanatico religioso. La madre compare in una sola lettera e di lei scopriamo così che ha smesso di andare a trovare il figlio da molto tempo e che comunque, esattamente come non proferiva parola quando il marito lo puniva, stava in silenzio anche durante le visite in ospedale.
Il mistero più grande di questo libro è la destinataria delle lettere: nella prima parte l’io narrante si riferisce a lei chiamandola «parola», tanto che leggendo ci si convince che alla possibilità di comunicare, allo strumento della poesia (la parola, appunto) siano destinate simbolicamente le lettere. Si tratta di un’interpretazione suffragata dal fatto che le missive sono accompagnate da versi. A un certo punto, però, Esposito scrive: «la possibilità di trasportare i nostri corpi a distanza fino a farli riunire» e in seguito chiarisce che si tratta di una donna.

A QUESTA INNAMORATA, allora, il protagonista scrive lettere nelle quali racconta i libri che ricorda a memoria e che sono stati fondamentali per lui, condivide odi alla luna di natura fortemente leopardiana, o parla della guerra. In altre pagine troviamo i racconti dell’infanzia, soprattutto, ancora, le storie del rapporto col padre.
La sensazione, fin dall’inizio, è che la destinataria, chiunque essa sia, non leggerà mai queste lettere perché il direttore che le tiene in consegna non le spedirà affatto. Poi si comprende anche che questo è un aspetto secondario: l’obbiettivo di Esposito è cercare di esprimere i pensieri di una mente che si sente intrappolata in una vita che non le appartiene, che non le corrisponde. Per il personaggio di questo libro il confinamento è in un ospedale psichiatrico, per altri e altre avviene nella vita quotidiana, senza che ci siano dei muri a segnalare la prigionia dell’alienazione.