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Un mercato per il socialismo, il caso Politica ed Economia

Un mercato per il socialismo, il caso Politica ed EconomiaTorino 1952, la sfilata degli operai dell'Ansaldo per l’apertura della Festa dell'Unità

Profondo rosso Dagli esordi ispirati alla dottrina sovietica al «capitalismo di stato». Dalla lotta ai grandi monopoli privati alla deriva governista. Una rivista importante e celebri dibattiti che non hanno sciolto un dilemma

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 21 gennaio 2021

Nella storia del Partito comunista italiano i temi della politica economica cominciarono ad acquistare una certa rilevanza solo nella seconda metà degli anni ’40 del secolo scorso, dopo la svolta togliattiana del partito nuovo. Una spiegazione può essere rintracciata nel fatto che, fino alla guerra, il progetto strategico del Pci era ricalcato sul modello dell’Unione sovietica e dell’ideologia del marxismo-leninismo. Il primo passo era quello della presa del potere, come precondizione, una volta abbattuto il capitalismo, per iniziare a costruire una società socialista. Il marxismo-leninismo indicava anche i cardini della costituenda economia post capitalistica: proprietà pubblica dei mezzi di produzione e coordinamento delle scelte mediante la pianificazione.

Dopo la svolta togliattiana, il progetto politico non era più quello di «fare come in Russia», ma diventava quello di lavorare per realizzare in Italia un regime democratico e progressivo, nella prospettiva strategica di percorrere una «via italiana» alla costruzione di una società socialista. In questo quadro le cose, per quanto riguarda l’economia, cominciarono a cambiare: comparivano i temi della crescita economica, del lavoro e dell’occupazione, della distribuzione del reddito. Tuttavia i tempi del cambiamento restavano lenti, e ciò per due motivi principali: (1) dopo la breve stagione in cui partecipò al governo, il Pci venne ricacciato all’opposizione, dove sarebbe rimasto per oltre tre decenni (e stare a lungo all’opposizione, senza una prospettiva concreta di alternanza, favorisce il gioco di rimessa e non aiuta la maturazione di nuovi modi di pensare); (2) le competenze economiche del gruppo dirigente di quel periodo riflettevano inevitabilmente la temperie culturale in cui esso si era formato negli anni precedenti, ed erano perciò molto più omogenee alla strategia prebellica, quella – per intenderci – del modello sovietico.

Le tracce dell’originaria formazione marxista-leninista sarebbero rimaste a lungo e avrebbero rallentato e condizionato lo sviluppo di nuove idee. Questo punto può essere illustrato considerando i cambiamenti nel corso del tempo dell’atteggiamento del Pci su una questione specifica, ancorché assai rilevante: quella del capitalismo di Stato, ossia delle imprese pubbliche. Queste, data la presenza delle partecipazioni statali, rappresentavano una fetta significativa del capitalismo italiano che andava ben oltre i classici campi dell’intervento pubblico nell’economia (strade, ferrovie, comunicazioni) per investire una larga fetta del mondo delle imprese (acciaio, meccanica, cantieristica, energia) e la quota maggioritaria del sistema bancario. Insomma, tanta roba.

Il sistema delle partecipazioni statali (l’Iri) era stato una risposta del regime fascista alla grande crisi dei primi anni trenta del secolo scorso. Subito dopo la guerra la prima reazione di alcuni esponenti del Pci era stata quella di procedere al suo smantellamento e all’epurazione del gruppo dirigente. Questo progetto non passò. Di epurazione non si parlò più, e il giudizio prevalente del Pci sulle imprese pubbliche divenne una curiosa contaminazione della tradizione marxista rivista alla luce dell’articolo 41 della Costituzione: il sistema delle imprese pubbliche poteva (doveva) essere guidato e utilizzato dallo Stato per perseguire finalità sociali, ossia per costruire un nuovo e più equo assetto dell’economia e della società. Ovviamente, dato il collocamento del partito all’opposizione, il tutto era corredato da cautele riguardanti il rischio che il sistema delle partecipazioni statali potesse essere gestito e utilizzato come strumento di regime.

Nel 1958 all’interno di un dibattito organizzato dalla rivista Politica ed Economia venne proposta una prospettiva completamente diversa: quella che le imprese pubbliche potessero (dovessero) essere gestite secondo criteri di economicità. Alla base di questa prospettiva c’era l’idea che le finalità sociali potessero essere perseguite meglio affidando al mercato il compito di realizzare un’allocazione efficiente delle risorse, e affidando in particolare alle imprese pubbliche un compito di promozione della concorrenza contro i monopoli privati.

L’idea non fece proseliti: le imprese pubbliche continuarono placidamente a coltivare spazi di mercato e, come contropartita, a finanziare la politica. Eppure avrebbe potuto avere effetti dirompenti. Lo testimonia quanto successe nel mercato del lavoro: alla fine degli anni ’50 le imprese pubbliche lasciarono Confindustria e costituirono una propria rappresentanza (Intersind-Asap); ciò consentì (all’inizio del decennio successivo) la firma di accordi retributivi e normativi molto avanzati per i lavoratori.

Dentro il Pci il cammino verso l’accettazione del mercato è stato molto lento. Per parecchi anni, l’unico tema che al riguardo aveva acquistato crescente rilevanza era stato quello della lotta ai monopoli privati (il «capitale monopolistico» nel gergo di allora). Perché il dibattito sul mercato assumesse nel Pci un ruolo centrale si sarebbe dovuti arrivare alla metà degli anni settanta, quando, sull’onda dei grandi successi elettorali (e dell’emergenza economica), la prospettiva della partecipazione al governo si fece concreta (e imminente).

Il punto, però, è che la questione del mercato venne imposta al Pci dalle circostanze esterne. E ciò ebbe l’effetto di far emergere una profonda dicotomia tra una vecchia ortodossia diffidente e dirigista (arroccata sulla massima che «pubblico è comunque bello»), che vedeva ancora il mercato come la causa di tutti i problemi, e una nuova generazione «governista» che lo vedeva come la soluzione di tutti i problemi. Le posizioni intermedie, e più meditate, erano all’interno del partito largamente minoritarie. Negli anni precedenti era mancata, cioè, una sufficiente riflessione sul ruolo del mercato; sulle sue potenzialità e sui suoi limiti; sulla sua capacità, se gestito e regolato con attenzione e lungimiranza, di favorire la crescita economica, l’efficienza e anche l’equità; ma anche sulla sua capacità, se lasciato fare, di condurre l’economia e la società verso assetti più inefficienti e più iniqui, e verso distribuzioni del reddito e della ricchezza più sperequate.

Negli anni ’80 questa riflessione ha fatto qualche passo avanti, ma in misura ancora largamente inadeguata. Di nuovo hanno contato le circostanze esterne: ancora l’emergenza, il ritorno all’opposizione, la concorrenza spregiudicata dei socialisti guidati da Craxi. È probabile che anche questo abbia contribuito al declino del Pci e forse alla conclusione della sua vicenda storica alla fine del decennio. Il problema di una politica economica «di sinistra» in condizioni di mercato restava largamente irrisolto. E tale sarebbe rimasto anche in seguito, sia per gli eredi del Pci, sia per le formazioni politiche cresciute alla sua sinistra e alla sua destra.

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