Un mare di menta di Eugenio Montale
Divano Dal volume della mondadoriana collana de "Lo Specchio. I poeti del nostro tempo"
Divano Dal volume della mondadoriana collana de "Lo Specchio. I poeti del nostro tempo"
Sul foglio di guardia di un volume della mondadoriana collana de ‘Lo Specchio. I poeti del nostro tempo’. La carta assorbe in eccesso e le macchie si spandono, forse, oltre il voluto. In certi punti a contatto si sovrappongono. E poi i liquidi impiegati, o si dica i pigmenti, non sono immediatamente compatibili. Asciugano in tempi diversi. Più rapido, ad esempio, l’aceto del caffè. (O è, invece, il contrario?). E anche la carta reagisce differentemente. Là dove è intrisa con il caffè fa una leggera groppa. L’aceto, invece, la stira e forma delle pieguzze a raggiera nell’alone, che poco vedi, ma che avverti al tatto. Bagnato l’indice nello sciroppo di menta, il polpastrello picchietta in rapida successione cinque, sei volte al mezzo della pagina e ottiene una macchia orizzontale continua. La componente zuccherina dello sciroppo, seccando, rilascia una superficie granulosa che si screzia in infinitesimi cristalli. Una ulteriore fascia irregolare e sfrangiata è ottenuta versando un poco di caffè, una gora che dona un colore di sabbia a lambire il margine inferiore della chiazza di menta. Applicata sullo sbaffo, una malta bianca. Fa un effetto di calce stesa con una spatoletta. È, invece, pasta dentifricia spremuta dal tubetto con sapiente parsimonia e delicatamente spalmata. Il verde della menta, delimitato in alto da una tremula traccia di penna biro, illude un mare. Sull’incerto orizzonte naviga un vapore: due freghi neri e, in punta di penna, un fumaiolo. Il fumo sale come un graffio fino a una nuvola alta nel cielo. Un cirro realizzato con un residuo di tamarindo (una ditata) che lo fa marrone. L’orlo è una linea oscillante tirata dalla biro nera. Tal quale una irregolare focaccia, una frittella bislunga. Qui certi sgorbietti d’una matita viola conferiscono alla nuvoletta un sentore di leggerezza. Ti par che possa veleggiare e il suo sia un transito rallentato, ora, dal filo del fumo che quasi la aggancia. Il battello, rifletti, la potrebbe frenare. O è la nube che traina il piccolo naviglio sullo sciroppo prosciugato? Tra le chiazze che impiastricciano il cielo sta un piccolo sole incolore. La pagina de ‘Lo Specchio’ nella sua parte inferiore è una spiaggia con cinque ombrelloni. Tre gialli e due rosa. Ma un rosa e un giallo stinti per le troppe volte che furono aperti al sole. Tra gli ombrelloni alcuni villeggianti. I freghi brevi della biro li rendono simili a formiche. Indagano la cortina di dentifricio Binaca nel tentativo di raggiungere il mare. Sulla battigia di caffè, per altro, non scorgi nessuno e nell’acqua della menta non ci sono, al momento, bagnanti. Laggiù, sul bordo destro della pagina, intravedi appena l’altura di Bocca di Magra e di Monte Marcello. Perché la spiaggia è quella del Forte dei Marmi.
E in alto, oltre il cielo, la nube, il filo di fumo, il mare e gli ombrelloni, sotto l’intestazione I poeti del nostro tempo leggi: «Al caro Forfecchia. Eugenio Montale 1967». Forfecchia – forbicina – è il nomignolo che Montale dette ad Alberto Paoli, amico dei soggiorni estivi in Versilia. L’anno precedente, per il settantesimo compleanno di Montale, Vanni Scheiwiller aveva pubblicato diciotto Pastelli e disegni del poeta. Ho insistito sulla tecnica di Montale pittore e sulla provenienza eteroclita dei materiali impiegati. Quanto possa imbrattare la carta va perfettamente bene. E il foglio è, per lo più, ‘trovato’ per caso, a portata di mano. E ogni zacchera conferita redige con un preciso intento le tracce originate da sostanze non compatibili. Il disegno corteggia modi infantili. Elementari, come diresti nel senso della scuola. Ma l’elementarità di Montale pittore sta nel compilare una immagine scontata (frontale, senza prospettiva) rilasciando sul foglio frittelle e freghi ottenuti facendo ricorso a fiammiferi combusti, lipstick e residui di bevande. Pitturare, disegnare è eseguire un trasferimento centripeto di tracce che resterebbero altrimenti sparse. Il fondo del caffè nella tazza; il segno del rossetto sull’orlo del bicchiere; la goccia di vino sulla tovaglia. Elementi separati si compongono, convogliati da un gesto ordinatore. Come orchestrare i suoni degli ottoni, dei fiati, dei legni.
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