Cultura

Un maniaco dell’ordine in scacco sentimentale

Un maniaco dell’ordine in scacco sentimentaleLo scrittore Juan Filloy

Narrativa «Op Oloop», il libro dell’autore argentino del 1934, ora pubblicato da Ago in Italia. Lo scrittore è un classico «occulto», considerato tra i fondatori della modernità letteraria latinoamericana. Erudito, con una lunga carriera in magistratura, uomo dei tre secoli - nacque nel 1894 e morì nel 2000 - ibridò la lingua e i generi; a Rio Cuarto creò musei, biblioteche, squadre di calcio e fu persino arbitro di boxe

Pubblicato 27 giorni faEdizione del 13 ottobre 2024

Ogni tanto una buona notizia: Ago, nuovo editore romano, dedica il suo catalogo ad autori del Novecento poco noti, mai tradotti o dimenticati, insomma a scritture perdute e ritrovate (veri «aghi nel pagliaio», visto che il nome della casa editrice vuole rimandare proprio a questo piccolo oggetto), come quella dell’argentino Juan Filloy, finora sconosciuto ai lettori italiani e adesso in libreria con una delle sue opere più significative, Op Oloop (Ago, pp. 345, euro 10, l’eccellente traduzione è di Giulia Di Filippo), il cui titolo corrisponde al nome del protagonista, uno statistico finlandese insediato nella Buenos Aires degli anni Trenta.
Una proposta che verrebbe voglia di definire provvidenziale, almeno per quei lettori che non temono di frequentare strade secondarie dove li aspettano felici sorprese e incontri insoliti. E insolito Juan Filloy lo è senz’altro: una sorta di classico «occulto», un precursore che secondo alcuni è tra i fondatori della modernità letteraria latinoamericana e che ha lasciato un’opera vastissima, composta da romanzi, racconti, saggi, poesia e una gran quantità di palindromi.

APPREZZATO da una ristretta cerchia di critici e letterati, in vita Filloy non ha mai goduto di grande popolarità, e non è difficile capire perché, se si considera la sua decisione di pubblicare soltanto edizioni finanziate e curate da lui stesso (era, tra l’altro, un disegnatore e calligrafo di talento, e si intendeva di grafica), e poi inviate qualche centinaio di lettori, che talvolta gli rimproveravano di rifiutare le offerte degli editori e di negarsi a un pubblico più vasto.
Dal 1938 in poi, inoltre, smise di pubblicare (ma non di scrivere) e ricominciò solo molti anni dopo, una volta conclusa la sua lunga carriera in magistratura. Una scelta attribuita al desiderio di evitare conflitti tra la sua figura pubblica e quella «privata» di scrittore eterodosso, anche se è più probabile che volesse semplicemente fare a modo suo, senza condizionamenti, e si tenesse perciò a distanza dal mercato e dal circuito letterario ufficiale, arrivando addirittura a scegliersi i lettori.
I suoi primi libri, comparsi tra il 1931 e il 1937, furono comunque accolti da articoli e recensioni favorevoli, e misero in moto un ampio passaparola su quell’eccentrico amateur che viveva nascosto, in provincia. Oggi la sua narrativa è tradotta in varie lingue e ampiamente pubblicata, mentre a partire dagli anni ’90 sono apparsi numerosi studi su di lui, anche se a volte l’interesse per il «personaggio» eccentrico ha fagocitato quello per l’autore, conosciuto come «l’uomo dei tre secoli» (nato a Cordoba nel 1894, morì nel 2000), cui la nascita in una modesta famiglia di immigrati analfabeti non impedì di laurearsi in legge, di diventare un colto poliglotta e di svolgere un’intensa attività culturale nella cittadina di Rio Cuarto, dove contribuì a creare musei, biblioteche, squadre di calcio e circoli sportivi, e fu perfino arbitro di boxe (non a caso la biografia che Ariel Magnus gli ha dedicato nel 2017 si intitola Un atleta de las letras).
Op Oloop, del 1934, è tra i suoi romanzi migliori insieme a ¡Estafen! (1932) e a Caterva (1937) – libro amatissimo da Cortázar, che lo cita con devozione in Rayuela –, e narra diciannove ore e quarantasei minuti della vita di Optimus Oloop, un tempo membro della Guardia Rossa poi convertito alle scienze statistiche e a una visione del mondo basata su dati, archivi e colonne di cifre.

FINCHÉ, UNA DOMENICA mattina, Op comincia a comportarsi in modo insolito, si abbandona a scenate e intemperanze, esorta i dipendenti dei bagni turchi a unirsi in una Internazionale della Mancia e, durante la festa per celebrare il fidanzamento con l’adorata Franziska, provoca incidenti via via più gravi al consolato finlandese.
Le stravaganze di Op si ripetono anche durante un banchetto in compagnia di sette eterogenei amici, destinato a celebrare il suo millesimo coito a pagamento (conserva memoria di ogni prostituta in un taccuino, «la sola vera opera della sua vita») con una ragazza che poi scoprirà, inorridito, essere figlia di una sua antica fidanzata. Sempre più scosso, torna infine a casa e conclude la giornata e il romanzo con un gesto drammatico, inevitabile conclusione del caos seminato dall’irragionevole e ingovernabile sentimento amoroso nella sua maniacale razionalità, ostile da sempre a passioni, pulsioni e disordini interiori, perché affidata interamente a una scienza «che lega la matematica pura all’esame del mondo reale».

RACCONTATA da un narratore onnisciente, la vicenda si articola in capitoli scanditi da orari precisi e dal transito in spazi diversi, che risulterebbe frenetico se non fosse interrotto dalla lunga pausa del simposio serale (il rimando a Platone è d’obbligo), autentica miniera di memorie, riflessioni filosofiche, aneddoti, citazioni e rivelazioni, in cui, con piglio iconoclasta, umorismo corrosivo e improvvise malinconie, si affrontano temi quali la guerra, il sesso, l’amore, la religione, il potere, la giustizia, l’identità e la sua costruzione.

È PROPRIO NEI DIALOGHI del banchetto che il rapporto di Filloy con la letteratura si conferma non soltanto ludico e programmaticamente votato al gioco formale e verbale: come in Caterva e in ¡Estafen!, l’autore – che si definiva di idee socialiste – dialoga con il contesto sociopolitico di quello che in Argentina viene chiamato «il decennio infame» (tempo di dittature, colpi di stato, miseria, repressione) e, più in generale, con un’epoca segnata ovunque da avvenimenti drammatici. Ed è formidabile e dolorosa l’ invettiva di Op sulla guerra e sui numeri che la accompagnano, sull’immenso «esercito disteso» composto da milioni di caduti, sui mercanti d’armi, sul nazionalismo e la sua ghignante maschera patriottica.
Come sempre, in Op Oloop Filloy sovverte generi discorsivi e letterari (li praticò e li stravolse tutti, dal diario di viaggio alla gauchesca, sfiorando il noir, il poliziesco e la fantascienza) e insinua parodia e grottesco nei codici del romanticismo, aggiungendo agli scambi tra Franziska e Op esilaranti considerazioni fisiologiche o psicologiche, ma soprattutto dispiega, al servizio di una storia che lascia intravedere una spietata consapevolezza dietro la schermo della follia, una lingua ricchissima, connotata da una pluralità di registri.

ERUDITO, AUDACE e sensibile a ogni sfumatura dell’oralità, l’autore non esita a mescolare vocaboli raffinati e arcaici, neologismi creati ad hoc, giochi di parole e i termini «sporchi» e marginali del lunfardo («In questo Paese di alluvioni migratorie, la sua sfrontatezza gli permette di impadronirsi di tutte le lingue, di depredarle, e di trasformare espressioni solenni in taglienti giri di parole dal significato beffardo»). L’ibridazione non solo tra linguaggi e generi (i dialoghi dei partecipanti al banchetto sono a volte squarci saggistici inseriti in un contesto narrativo), ma anche tra cultura «alta» e «bassa», tra ambienti borghesi e plebei, tra commedia e tragedia, tra correnti letterarie, dal modernismo al surrealismo (secondo Adolfo Bioy Casares, Filloy era il vero surrealista argentino).
Leggere Filloy è, come diceva Chesterton a proposito di Dickens, «una gioia antica e nuova», e non c’è da stupirsi che Cortazar lo ammirasse tanto… troppo, secondo la moglie dell’autore, Paulina, che fece notare al marito: «Hai visto, questo ragazzo scrive come te, ti copia». E lui si limitò a rispondere: «Va bene così. Lasciamolo fare».

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