Visioni

Un laboratorio per mettere in scena le nuove generazioni

Un laboratorio per mettere  in scena le nuove generazioniAntonio Latella

Intervista Antonio Latella, nuovo direttore della Biennale Teatro, racconta il lavoro del College per i giovani artisti. La scommessa è cercare i talenti del futuro tra chi ha meno di trent’anni

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 21 luglio 2017

Tra i diversi settori mancava finora il Teatro nella scommessa di Biennale College, iniziativa nata nel 2012 all’interno della Biennale di Venezia con l’obiettivo di offrire ai giovani artisti l’opportunità di sviluppare i propri progetti accompagnati dal supporto di professionisti del settore. Per fare un esempio: sono tredici i film prodotti finora all’interno del Biennale College Cinema, otto opere da camera, sempre con budget molto piccoli, realizzate nel settore Musica, e tre brevi coreografie nella prima edizione del College specifico inserito nel più generale College per la Danza. Il progetto, sostenuto con passione dal presidente della Biennale Paolo Baratta, è un importante apertura alla formazione, aspetto non così evidente nelle grandi macchine festivaliere, nate per puntare più sulla vetrina, e che invece è prioritario per garantire alla ricerca e alla produzione artistica un rinnovamento nel futuro.

 

 

Biennale College è arrivato al Teatro in coincidenza con la nuova direzione di Antonio Latella, un artista che alla regia – in questi giorni è in scena al festival di Avignone con Santa Estasi, la prossima stagione riprenderà il Pinocchio – ha sempre unito la formazione di giovani. Per questo, con un bando rivolto a ragazzi tra i diciotto e i trent’anni per progetti mai messi in scena, si intreccia intimamente al tema della Biennale Teatro, «I registi», perché la regia è il centro del lavoro svolto insieme ai partecipanti del campus.

 

 

Nel campus  sono dunque coinvolti gli autori in cartellone, attraverso laboratori che, di nuovo in sinergia col programma caratterizzato dalla presenza dominante di registe, mettono al centro la figura della donna. Artiste scomparse misteriosamente, troppo presto uscite di scena, chi al culmine del successo decide di farla finita. «Sono convinto che in un festival dove il filo rosso resta il processo creativo degli artisti, sia anche importante avere il coraggio di fermarsi a riflettere su coloro che volontariamente hanno scelto prima del tempo di dare addio alla vita o di rifiutare la carriera artistica» si legge nelle note di Latella. Così Nathalie Beassé lavora sulla storia – e l’immagine pubblica e privata – di Jean Seberg, indimenticabile mentre corre con la sua maglietta a righe sugli Champs Elysèes in A bout de souffle (Fino all’ultimo respiro) di Godard. Maria Grazia Cipriani ha scelto la figura di Amy Winehouse, il talento pubblico e il privato, le ultime parole della musicista: «Non tagliatemi le ali» «Se potessi dare indietro tutto per camminare tranquilla per strada lo farei …». Ancora Katrin Brack, scenografa tedesca ha voluto prendere come artista di riferimento Charlotte Posenenske.

 

 

Più che lezioni si tratta di una condivisione di quel processo creativo su cui insiste questa edizione della Biennale Teatro, una sorta di passaggio di pratiche e di esperienze, lo scambio orizzontale di un fare artistico con cui reinterpretare il concetto di formazione.
Ne parliamo al telefono da Berlino, dove vive ormai da tempo, con Antonio Latella. «L’iniziativa del College nei diversi settori, dal cinema alla musica al teatro, promuove i il sostegno ai giovani artisti. All’interno di un’istituzione come la Biennale risponde al compito di far tornare l’Italia competitiva con le nuove generazioni. Mi occupo di formazione da anni, e quando mi hanno chiamato alla direzione della Biennale Teatro era quasi implicito che lo facessi anche qui, rispecchia la mia storia».

 

 

La questione della formazione che è alla base del Biennale College, mi sembra molto importante. Spesso di fronte ai risultati di artisti più giovani, nei diversi campi, si ha l’impressione che nonostante ci siano tante scuole specializzate, manchi un vero scambio, che un progetto nelle sue diverse fasi non abbia avuto l’opportunità di essere seguito da chi ha maggiore esperienza professionale.
Lavoro molto all’estero e spesso mi chiedo come mai lì i giovani, anche i giovanissimi abbiano la possibilità di lavorare in spazi importanti, cosa che invece da noi in Italia accade molto poco. Il tema della regia che attraversa l’intera Biennale permette di confrontarsi con questa mancanza cercando attraverso l’esperienza del College nuovi registi nella fascia d’eta sotto i trent’anni. Dopo questa prima esperienza posso dire che in Italia c’è molto talento, quello che manca sono le occasioni di incontro nelle quali i più giovani possano confrontarsi con interlocutori capaci di sostenerli. E non è solo un problema di spazi, quelli i giovani hanno l’energia giusta per trovarli. Non c’è un investimento produttivo, all’estero anche a un giovane regista si offre la possibilità di vedere se ha abbastanza forza per sostenere il grande palcoscenico. In Italia gli stabili nazionali devono avere una scuola di formazione ma questa non dovrebbe essere semplicemente – come purtroppo spesso accade – un dovere e basta. Anche perché se si aprono delle scuole è un po’ come dire al mondo che ci sono possibilità professionali e invece non è così. Chi esce dalle scuole spesso si trova spiazzato, soffre il fatto di non essere stato seguito nel modo giusto. L’insegnamento non è un mestiere come tanti ma richiede una vocazione.

 

 

Come è avvenuta la selezione dei progetti?
Ai ragazzi è stato chiesto di presentarli insieme a una breve motivazione, poi li ho incontrati chiedendogli cosa volessero fare e perché, il modo in cui un giovane regista presenta il proprio progetto e lo condivide permette di avere una prima idea di come lo porterà avanti. La scelta finale dei sei progetti copre diversi linguaggi, e soprattutto in alcuni di loro la regia è centrale.

 

 

I laboratori mettono a contatto giovani e maestri a partire da soggetti molto precisi. Qual è l’idea su cui si fonda questa struttura?
La scelta di lavorare con alcuni registi vuole mettere gli allievi in condizione di scoprire da vicino cosa è un processo creativo, permette loro di vederlo in azione. In questo senso l’organizzazione dei laboratori rimanda al focus sulla regia nel quale sono presenti molte registe di cui vengono proposte delle personali. Anche questo è un modo per seguire un processo andando al di là di un’offerta un po’ da supermercato che mette insieme tante cose diverse. Sono spettacoli che ci piacciono e che nel loro insieme affrontano questioni estetiche e stilistiche.

 

 

Alla fine del percorso cosa accade?
I ragazzi presenteranno in forma di studio il loro lavoro a tutti gli altri del College, che saranno divisi in tre gruppi con un portavoce e alla fine esprimeranno le loro preferenze. Io farò per un anno il tutoraggio del progetto vincitore. Gli studi verranno presentati anche a alcuni operatori, programmatori di festival, ma saranno pochi perché in quella fase il lavoro deve essere protetto il più possibile.

 

 

Come descriverebbe il lavoro di direzione della Biennale Teatro?
È una specie di grande regia, che attraverso altri artisti permette di raccontare anche te stesso.

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