Un kit per la libera sopravvivenza
Mostre Alla Jane Lombard Gallery di New York, una personale di Lucy + Jorge Orta che ripercorre le tappe del visionario progetto sull'Antartide, immaginata come terra senza frontiere
Mostre Alla Jane Lombard Gallery di New York, una personale di Lucy + Jorge Orta che ripercorre le tappe del visionario progetto sull'Antartide, immaginata come terra senza frontiere
L’ufficio passaporti è aperto: un curioso assemblaggio di oggetti trovati che s’incontra appena varcata la soglia della Jane Lombard Gallery. Copertina blu e scritta argento: Antarctica. Il primo passaporto emesso in occasione della prima personale newyorkese di Lucy + Jorge Orta (visitabile fino al 20 febbraio) è il n. 8132. Non ci sono confini per i cittadini di un mondo che crede ancora nei diritti primari: libertà, giustizia, pace. Lucy Orta (Sutton Coldfield, Regno Unito, 1966) e Jorge Orta (Rosario, Argentina, 1953) – dal loro incontro negli anni ’90 a Parigi (tuttora sono di base tra Parigi e Les Moulins) sono una coppia nella vita privata e nell’arte – non hanno mai smesso di crederci.
Nel 2007, nell’ambito della Biennale della Fine del Mondo di Ushuaia, sono partiti per la spedizione al Polo Sud, tappa di una serie di viaggi per consegnare al mondo un messaggio di «poetizzazione del quotidiano» che coniuga creatività, passione, utopia e speranza. Anche in Italia, in occasione di varie mostre – Fondazione Bevilacqua La Masa, Venezia (2005), Hangar Bicocca a Milano (2008) e al romano Maxxi – l’indagine di Studio Orta ha esplorato trasversalmente l’arte sociale e ambientale, entrando nel vivo di questioni legate a identità, ecologia, politica, storia, territorio. Disegno, pittura, scultura, installazione, fotografia, video e performance sono i mezzi a cui affidano un’idea di «scultura umana» o «scultura sociale».
«L’opera è un processo molto lungo di osservazione e analisi della società, sul cambiamento e funzionamento di cui siamo osservatori, spettatori, attori», ha spiegato Lucy. Riflessioni e domande che hanno cominciato a prendere forma con la guerra in Iraq. «Solo con il tempo un progetto comincia ad acquisire una profondità», ha incalzato Jorge. Nelle opere della serie Life Line – Survival Kit (2008), Antarctic Village -No Borders (2006-2008) e anche nelle più recenti Epicerie – Vitrine (2014-15) – strettamente connesse le une con le altre – la presenza di oggetti della quotidianità (dai giubbotti salvagente agli utensili da cucina, alle riproduzioni di cibi in scatola neutralizzati del loro contenuto commerciale), è descritta la vita con i suoi colori e i suoi drammi: esodo, guerra, sopravvivenza, sradicamento. «Oggi nel mondo ci sono oltre duecento milioni di profughi, non solo a causa delle guerre, anche per via del clima e della religione. Ma sarebbe riduttivo parlare della mostra solo in questi termini, perché ci sono altri livelli di lettura. Antarctica è uno specchio di quello che siamo noi. Qual è il nostro ruolo nella società? La nostra responsabilità, la forza? Siamo solo spettatori?». Gli Orta sono consapevoli che l’arte è catalizzatrice di un pensiero profondo che può determinare una reazione, piccola o grande. «La nostra posizione è chiara, tanto che uno dei manifesti basilari del nostro lavoro è l’Utopia Fondatrice. Utopia come idea forte, futura, inimmaginabile che deve essere messa in relazione con la realtà, perché il sogno e l’ambizione finiscano per renderla possibile».
Motore di questo pensiero è la convinzione che proprio l’Antartide rappresenti la metafora giusta per immaginare il futuro. Una terra che non ha frontiere, libera dalle armi nucleari, la cui legge è determinata dalla natura e che, stando al Protocollo di Madrid del 1991 (che va ad integrarsi al Trattato del 1959), è preservata tra gli altri dallo sfruttamento delle risorse minerarie. Anche andare fisicamente laggiù, a distanza di migliaia di chilometri dal ritmo frenetico della civilizzazione, ha rappresentato per loro un momento significativo.
«La metafora in sé era, forse, sufficiente perché aveva tutti gli elementi che volevamo trattare, tanto più che erano molte le difficoltà di un viaggio in Antartide, di una spedizione e un allestimento in situ. Ne abbiamo parlato molto, Lucy ed io, prima di decidere di andarci. Ma l’esperienza di sentire il vento, il freddo, la solitudine, l’essere circondati da quella natura selvaggia è stata ben più intensa rispetto al realizzare un disegno o allo scrivere un progetto».
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento