Un italiano a Baires
Storie/La parabola di Luca Prodan, il più famoso rocker d’Argentina Gli studi in Scozia, il ritorno a Roma, il punk e l’eroina, il viaggio nel paese latinoamericano in piena dittatura militare, la band, il successo, la morte
Storie/La parabola di Luca Prodan, il più famoso rocker d’Argentina Gli studi in Scozia, il ritorno a Roma, il punk e l’eroina, il viaggio nel paese latinoamericano in piena dittatura militare, la band, il successo, la morte
Calle Alsina è una lunga e centrale via di Buenos Aires che dal Rio de la Plata si insinua verso la città, attraversando tutto lo storico quartiere di Monserrat. Al civico 451, nella zona di San Telmo e a pochi passi da Plaza de Mayo, si trova un palazzo anonimo e scuro che, per quanto possa sembrare abbandonato, è a tutti gli effetti un’attrazione turistica. Il portone d’ingresso è interamente ricoperto da graffiti: scritte, dediche e disegni si sovrappongono fino a diventare indecifrabili. Da trent’anni, ogni giorno, persone di passaggio si fermano qui per una foto, per incidere la propria firma o porgere un fiore sulla soglia.
Una piccola targa al lato della porta aiuta a capire il motivo di questo laico pellegrinaggio. In spagnolo, recita: «In questa casa visse i suoi ultimi giorni Luca Prodan, voce e leader dei Sumo. Luce, suono e poesia del rock argentino».
Luca Prodan è stata una figura imprescindibile per la storia del rock argentino, nonostante abbia vissuto nel paese meno di una decina d’anni. Luca, infatti, era italiano, e in Argentina ci finì soltanto per caso, in fuga da una vita difficile e apparentemente senza orizzonti. Proprio la fuga è una costante onnipresente nella sua storia, un elemento fondamentale per capirne la biografia. Quella di Prodan è stata una vita vissuta al massimo, tra alti, bassi, profonde cadute e miracolose rinascite: tutti i momenti decisivi della sua breve ma intensa parabola sono scanditi da evasioni forzate, cambiamenti radicali e svolte istintive. La prima, a soli diciassette anni: Luca, nato a Roma nel maggio del 1953 in una famiglia numerosa e internazionale – la madre, scozzese, e il padre, italo-austriaco, si erano conosciuti in Cina, da dove furono costretti a scappare nel primo periodo maoista – venne spedito giovanissimo a studiare in Scozia, nel prestigioso college di Gordonstoun, lo stesso frequentato per generazioni dai rampolli della famiglia reale inglese. Il rigore militare e i metodi anglosassoni, però, non facevano per lui, ribelle e da sempre allergico ad ogni tipo di imposizione. Giunto a un passo dal diploma, decise di mollare tutto e far perdere le proprie tracce, per attraversare l’Europa in solitaria e fare rientro in Italia. Ricercato addirittura dall’Interpol, venne infine trovato dalla madre a Roma, poco distante dalla casa di famiglia.
GLI ANNI LONDINESI
A fine anni Settanta, invece, lo ritroviamo a Londra, assunto come commesso nel primo megastore Virgin, in pieno centro. Il posto giusto al momento giusto, per un fanatico di musica: senza rinnegare gli ascolti di una vita (Nick Drake, Lou Reed e i Pink Floyd, ma anche Battisti e Battiato), si lasciò travolgere dai ritmi giamaicani dello ska e, soprattutto, dall’ondata punk che proprio in quegli anni invase l’Inghilterra. Conosceva persone, non perdeva un concerto ed era sempre aggiornato sulle tendenze alternative del momento: tutto sembrava perfetto. Alcuni eventi, però, ribaltarono completamente la situazione. L’eroina, innanzitutto. Luca ci si buttò a capofitto, con la stessa foga con cui divorava i suoi libri o dischi preferiti. Ma il vero colpo di grazia arrivò con una telefonata da Roma, che lo informò della morte, in circostanze tragiche, dell’amata sorella Claudia. Per lui fu uno shock: dopo essere finito in coma epatico per un’overdose cui sopravvisse per miracolo fu costretto a tornare in Italia, depresso e sconfitto come mai. A soli ventisette anni la sua vita era a un bivio. Serviva una svolta, per superare il lutto e dimenticare i fallimenti e le cattive compagnie, quella della droga in particolare.
Fortunatamente, l’occasione non tardò ad arrivare. Nel 1981 un vecchio amico del college lo invitò, con una cartolina, tra le montagne di Cordoba, in Argentina, dove si era trasferito da qualche anno. Quel paesaggio bucolico a Luca sembrava un sogno: il posto più lontano dove fuggire, il migliore da cui ricominciare.
ARRIVA IL TANO
L’Argentina di quegli anni era quella della dittatura dei colonnelli, dei desaparecidos e della guerra delle Malvinas. Il rock – in particolare se cantato in lingua nemica, l’inglese – era sottoposto a censura e vietato in tutto il paese: alcuni dei migliori artisti furono costretti all’esilio, e i grandi concerti messi al bando. Ma se da una parte gli argentini non potevano godersi le star internazionali dal vivo, nei sobborghi delle grandi città fiorivano locali in cui si stava formando una variegata scena alternativa.
Luca piombò in quel mondo come un alieno. Era il Tano – come vengono apostrofati gli italiani da quelle parti – che conosceva la musica d’oltreoceano come nessun altro. Con alcuni amici formò una band, i Sumo, di cui era leader indiscusso: scriveva i testi, cantava e si faceva notare per la straripante energia con cui teneva il palco. I Sumo facevano ciò che nessuno aveva osato fare prima: innanzitutto alternavano in una strana miscela funk, reggae, punk e new wave. E poi, il più delle volte, Luca cantava in inglese, caratteristica che rendeva la band pressoché rivoluzionaria vista la situazione politica del tempo. Con il tragico epilogo della guerra, nel 1983, e la conseguente caduta della giunta militare, il gruppo uscì dal sottosuolo della capitale per conquistare la ribalta nazionale.
Dopo tre concerti consecutivi all’Einstein Café, la mecca del rock argentino del tempo, anche la stampa si accorse del Pelado – il soprannome che Luca si guadagnò per la sua inesistente capigliatura – e della sua pungente poetica. Nelle sue canzoni, che univano una spiccata originalità a un ricorrente citazionismo, sapeva essere allo stesso tempo brutale e romantico, lirico e sarcastico. Migliaia di giovani si innamorarono della band, riconoscendosi in quel ragazzone che non rispettava nessuna autorità – politica, morale o intellettuale che fosse – e che cantava di bevute, quartieri dimenticati o dell’amore per un’attrice vista in tv.
In pochi anni la band pubblicò tre album, con cui finirono in vetta alle classifiche di vendita nel paese, e intraprese un tour interminabile, che li portò a riempire gli stadi e a diventare i protagonisti dell’epoca d’oro dell’entusiasmo artistico post-dittatura.
DOTE DI FAMIGLIA
L’illusione, però, ancora una volta durò troppo poco. Il 22 dicembre 1987 Luca morì improvvisamente, nella casa di Alsina 451, per un arresto cardiaco dovuto alla cirrosi che da tempo lo divorava. Nei suoi anni argentini, infatti, aveva ceduto a un’altra dipendenza, alla ginebra, un distillato di infima qualità diffusissimo nei bar che frequentava notte e giorno.
Senza di lui, i Sumo pubblicarono un ultimo disco, prima di dividersi in due band distinte, Las Pelotas e i Divididos – tuttora attive e seguitissime – i cui nomi ricalcano le parole pronunciate da Luca in una vecchia intervista. Ancora oggi, camminando per la capitale argentina, è facile imbattersi nel volto stilizzato del Pelado stampato su una maglietta o in un «Luca vive» inciso su un muro, a testimonianza della traccia indelebile che ha lasciato il Tano nel suo fugace passaggio.
Da quasi 20 anni vive in Argentina Andrea, il fratello minore di Luca. Vi si è trasferito per una scelta di vita e mollando un’avviata carriera cinematografica, come attratto da un irresistibile richiamo fatto di ricordi ed emozioni. Nel 2006 ha formato una poderosa rock band – i Romapagana, con base a Buenos Aires – con cui infiamma i locali di tutto il paese. Una dote di famiglia, evidentemente.
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