Cultura

Un ironico manuale di pratiche

Un ironico manuale di praticheUn murales parigino dello street artist Tore

Scaffale A proposito di «Istruzioni per diventare fascisti», appena pubblicato da Michela Murgia (edito da Einaudi)

Pubblicato circa 6 anni faEdizione del 31 ottobre 2018

Se Michela Murgia fosse un uomo, si direbbe che è il più sicuro, il più straordinariamente proficuo erede di Pier Paolo Pasolini. Un autore ircocervo perché al contempo fine letterato e fenomeno mediatico, un localista estremo ed estremista internazionalista, un gramsciano capace di vedere il colonialismo sulla soglia più prossima, cattolico e radicale in eguale eretica misura e galvanizzato dalla perturbante libidine della pedagogia.

INVECE, per fortuna, questa premiata narratrice d’incanto, mariologa pop, attrice teatrale, impavida stroncatrice virale e amichevole voce di podcast, questa politica militante ed ex-amministratrice di centrali termoelettriche seguìta da oltre duecentomila persone sui social è una donna, ed è pure simpatica. È forse anche per questo che piace a tanta gente che si crede di sinistra, quando al contrario la dovrebbero (la dovremmo) temere. Oltre al gusto dello sposalizio tra lirica e osceno, oltre alla vocazione popolare che solo i più raffinati e i più anomali nutrono sul serio, di Pasolini Michela Murgia ha infatti la capacità di far vergognare chi si sente al sicuro, chi riposa sui partiti presi, chi si suppone dalla sua stessa parte. Di chiamare noialtri per nome insomma: noi che leggiamo il manifesto e le vignette di Biani e i libri Einaudi, e di somministrare con perizia chirurgica la pulce più infinitesimale (e perciò più pericolosa) nei nostri orecchi di Mida. Del suo nuovo libro, fino a ieri, erano usciti solo il titolo, Istruzioni per diventare fascisti (pp. 112, euro 12), e una copertina con Forrest Gump.

Tanto è bastato perché, tra commenti e reazioni, si dispiegassero due opposte specie di orizzonti d’attesa, entrambi biforcuti e assolutamente fuori bersaglio. Di qua gli stufi, bulicanti come caffettiere, che bandivano l’autrice nelle rispettive opposte inconciliabili identità (Murgia zecca, al limite piddina vs. Murgia schieratella, semmai grillina). Di là, i saputi aspiranti complici – i «noialtri» di cui sopra – che intendevano invece tenersela stretta, e specchiarsi magari nella salvifica sua prosa di madrina da girotondo, o al contrario strapparla all’indistinto coro delle meno taglienti voci liberali ancora in circolazione (e allora «Murgia una di noi» vs. «ma che ne sapete voi di Murgia»). Di qua «Murgia lasciaci in pace», di là «Murgia salvaci tu». Spiace a questo punto rivelare a tutti – troll di Twitter e abbonati all’Espresso, topi di biblioteca e leoni da tastiera – che, leggendo queste otto Istruzioni come si ascoltano altrettante brillanti tracce da album concettuale, non rimane nessuno da congratulare o da mettere alla berlina, non resta alcun campo su cui poggiare comodamente i piedi o di cui, tantomeno, difendere l’esclusività.

In una comunione amara come ogni medicina efficace, Murgia ci mostra che, chiunque siamo, siamo come temiamo di essere: soli. Ma che lo siamo – ecco l’unico scintillio di ottimismo, privo di qualsiasi balsamico maternalismo – insieme. Attenzione però: soltanto chi bigiava il catechismo può pensare all’eucarestia come a un «tana liberatutti»: Murgia, che ha un baccelierato in teologia, non ha mai scritto neanche un racconto breve da cui ci si salvi tanto facilmente.

INDICI, ALGORITMI e scaffali lo rubricheranno tra i saggi, ma questo libro non è davvero un saggio, sebbene sia animato dall’influente spettro di uno degli inventori del genere saggistico, Étienne de La Boétie – quell’autore del ’500 che Feltrinelli, per capirci, ristampa con in copertina la maschera di Guy Fawkes nella grafica blu e rossa della campagna di Obama. No, questo libro è piuttosto un trattato, nel senso appunto rinascimentale della parola. Come spesso accadeva nei trattati italiani del XVI secolo (i libri con cui colonizzammo l’Europa e il mondo senza avere una nazione né un esercito), se ne intravede l’anima in un emblema; in un congegno di parole e immagine stampato all’ingresso: la fraintesa copertina con Forrest Gump appunto, che dice: «fascista è chi il fascista fa». Più che l’intelligenza, di cui è provvisto al punto da rimpiazzare i computer della Nasa in un viaggio spaziale, a Forrest manca totalmente l’ironia, la qualità letteraria (e tragica) che dobbiamo invece avere noi per divertirci con le sue satiriche avventure. Prende il mondo dannatamente sul serio, e assurdamente il risultato di una simile ottusità è il successo.

NELLE ISTRUZIONI ha luogo il medesimo artificio narrativo, il cui oggetto, poi, è tutto nel motto pronunciato da Forrest: il fascismo non è un’idea, né un fenomeno storico o uno specifico movimento nel corrente agone politico-culturale; il fascismo è un metodo, un modo di fare, una pratica. E dunque questo trattato è un manuale di pratiche, come il Cortegiano di Castiglione o il Principe di Machiavelli. Col Principe condivide anche un rischioso potenziale di malinteso, giacché un libro di pratiche manca di morale (nel senso esopiano del termine): come ogni trattato, è uno strumento. Ma, a differenza dei suoi seri (o forse meno seri) antesignani – Forrest ci aiuta a capirlo – questo libro è uno strumento affilatosi sulle maglie ruvide dell’ironia. Ebbene sì, contiene per davvero delle istruzioni per diventare fascisti: non c’è altro. E sono istruzioni (giuro) di buon senso. Si parte, come in ogni hobbesiana anatomia, dal capo (dalla stabilità dunque, così necessaria e così quasi costitutivamente assente nel nostro ordinamento parlamentare) e si passa per l’identità, la sicurezza, la chiarezza, la forza, la memoria. La qualità più inquietante di Murgia, in tutto quel che fa, è d’altronde una prodigiosa lucidità, e qui quella sua lucidità da crooner disinvolto (ma sempre perfettamente intonato) si presta a un incantesimo retorico formidabile: più che farci desiderare gli oggetti della sua analisi ci rende consapevoli del fatto che li desideriamo già, che addirittura li esigiamo (li votiamo, fantastichiamo di votarli).

LA VERA SATIRA, in letteratura almeno, è abbastanza chiara da non poter essere davvero scambiata per nient’altro, e si trattiene instancabilmente, tuttavia, dal rivelarsi da sé: ha qualcosa da perdere, è guardinga pur non avendo pietà; non lascia quartiere alla simpatia né alla censura. Invece di sbertucciare il potere, lo prende in parola: ne svolge con diligenza le idee, sciogliendole come fossero nodi: gli impedisce di adattarsi, di contaminare ogni cosa colonizzando il senso comune, di tenere insieme tutto e il contrario di tutto (il fascismo, già nel suo simbolo eponimo, fa letteralmente questo: fascia appunto, manteca, lega). Una simile acuta ironia per niente spassosa – eppure tanto divertente: leggete gli eserghi geniali di ogni capitolo, da Eminem ai Bee Gees – sopravvive alle contingenze perché non si limita a fare il verso alla realtà (e men che meno a qualcuno di preciso nella realtà), ma ne scandisce invece i nessi, ne ricrea scientificamente le condizioni, ne sillaba i gangli. Questo libro, come le Lezioni americane di Calvino o La fattoria degli animali di Orwell, è destinato a infestare di fruttuosi dubbi le menti di generazioni di liceali: è di un’attualità incandescente, ma promette di farsi più cogente ancora nei decenni che vengono. È un classico, e vale la pena accaparrarsene una prima edizione.

ABBONAMENTI

Passa dalla parte del torto.

Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento