Un imperialismo provinciale
Novecento Un paese restio all’intervento militare catapultato a combattere nelle trincee ai confini del paese e in quelle contro il nemico interno. «Convertirsi alla guerra» di Mario Isnenghi per Donzelli
Novecento Un paese restio all’intervento militare catapultato a combattere nelle trincee ai confini del paese e in quelle contro il nemico interno. «Convertirsi alla guerra» di Mario Isnenghi per Donzelli
Tra lo scoppio della prima guerra mondiale e l’intervento italiano intercorrono dieci mesi. Lo stesso intervallo, giorno più, giorno meno, si riproduce in occasione della seconda guerra mondiale.
Coincidenza troppo ingombrante per essere considerata casuale, e che rinvia invece a profili di lungo periodo dello Stato italiano. Quel complesso dell’«ultima grande potenza», arrivata tardi all’unificazione, esclusa dal «grande gioco» dell’equilibrio mondiale e dalle spartizioni coloniali, e che aspira a giocare un suo ruolo. Negli anni Trenta del secolo scorso sarà il più lucido ministro degli Esteri del fascismo, Dino Grandi, a formulare la teoria del «peso determinante», razionalizzando una disposizione già presente e che aveva operato nella decisione dell’intervento del maggio 1915: le dimensioni dell’Italia non le permettevano di agire da protagonista ma le consentivano pur sempre di decidere quale piatto della bilancia far prevalere col suo schieramento. Potranno essere in discussione alleanze, da dismettere o da allacciare, motivazioni e rivendicazioni della guerra da intraprendere, ma in ogni caso non sarà mai in discussione l’intervento in sé, fattore considerato strettamente connesso al «prestigio» del paese.
A ben vedere, è una disposizione di fondo che sopravvive alla fine dell’imperialismo italiano, sebbene disciplinata da una Costituzione che ripudia la guerra e da una politica estera prudentissima nel tempo della guerra fredda. Ma non appena salteranno gli equilibri del «secolo breve» riaffioreranno gli impulsi che inducono gli italiani a infilarsi in tutte le guerre che scoppiano, la costrizione di un malinteso «prestigio nazionale» che impone la partecipazione a tutte le missioni militari operanti sullo scenario internazionale.
E non a caso quando si ha ormai la certezza che la guerra è inevitabile, nel luglio 1914, il nuovo Capo di stato maggiore dell’esercito italiano, Luigi Cadorna, formula un piano bellico che prevede l’invio sul Reno di 5 corpi d’armata e due divisioni di cavalleria, rispettando la convenzione militare con la Germania. Comincia rievocando questo episodio il nuovo libro di Mario Isnenghi, Convertirsi alla guerra. Liquidazioni, mobilitazioni e abiure nell’Italia tra il 1914 e il 1918 (Donzelli, pp. 282, euro 20).
I nuovi equilibri liberali
Nell’arco di dieci mesi si produrranno la conversione dell’immagine della Germania da modello ad antimodello, la crisi dell’internazionalismo socialista e il passaggio al nazionalismo di settori importanti dell’opinione di sinistra, repubblicana, mazziniana, la trasformazione dei cattolici da intransigenti nemici dello Stato unitario a clerico-patrioti (in continuità col precedente già intervenuto durante la guerra di Libia) e, infine, il completo riassetto degli equilibri interni alla classe dirigente liberale.
L’irredentismo agitato per le masse si traduce nella «quarta guerra d’indipendenza» (che era ancora la formula dei nostri libri scolastici, e anche di qualche recente orazione presidenziale): Trento, Trieste, Istria, qualcosa della Dalmazia. Invece Nizza, la Corsica, Savoia, Gibuti, Malta, obiettivi agitati all’avvio delle ostilità, scompaiono rapidamente dall’orizzonte: torneranno buoni nella prossima occasione.
Le classi popolari, fino a tre anni prima ritenute indegne di esercitare il diritto di voto, sono ora chiamate a dare la vita per la patria. Ma la cosa che all’autore preme sottolineare è che il «passaggio dalla società dei notabili alla società di massa», che sarà uno dei risultati irreversibili della guerra, viene però gestito con ferrea capacità di controllo da gruppi di notabili. L’agile libretto vuol essere anche una riflessione sulla «solitudine delle élites» che gestiscono intervento e guerra senza accettare intromissioni.
Sono chiamati in causa generali, preti, giornalisti del Corriere della sera (vero giornale-partito che diviene house-organ del bellicismo, soppiantando nella vicinanza al potere la Stampa giolittiana di Frassati, favorevole alla neutralità). Nelle pagine di Isnenghi troveremo potenti giornalisti coinvolti nella gestione della guerra non meno dei generali (Albertini, Ojetti, Barzini, Fraccaroli), diaristi perplessi a futura memoria (Gatti) e anche donne emancipate o in via di emancipazione, come l’anarco-rivoluzionaria paladina dell’interventismo Maria Rygier, o la cattolica-democratica Antonietta Giacomelli.
La religione è coinvolta da subito nell’intervento. Cadorna, cattolicissimo malgrado l’accostamento inevitabile del suo cognome a Porta Pia, reintroduce i cappellani militari, non solo cattolici, ma anche pastori e rabbini, se pure in misura molto esigua. Tra i tanti ecclesiastici coinvolti spiccano Giovanni Semeria e Agostino Gemelli, entrambi «religiosi che vengono bene accolti al Comando supremo», «uomini d’azione e di potere – interpreti di un volontariato cattolico dai larghi orizzonti e imprenditori di lungo corso del sacro», con direzioni di marcia non sovrapponibili, tuttavia, visto che «Semeria aspira a coniugare i cristiani con la modernità, mentre Gemelli – altrettanto moderno nei metodi – guarda culturalmente all’indietro e aspira a indirizzare la “riconquista cristiana” del mondo verso ciò che non teme di chiamare Medioevo».
Sono molto pochi gli intellettuali che tentano di sottrarsi alla regressione propagandistica del nazionalismo, e tra questi l’esponente più illustre – ma ormai isolato – della cultura italiana, Benedetto Croce: «Considero tutto ciò – scrive nelle pagine dedicate alla guerra – come manifestazioni dello stato di guerra. Non si tratta già di quesiti razionali, ma di urti tra passioni; non di soluzioni logiche, ma di asserzioni d’interessi che, sebbene altissimi, sono nazionali, ossia particolari; non di ragionamenti, ma di finti ragionamenti, costruiti dall’immaginazione».
Una piccola logica di potenza
Ma di fronte al dilagare del «trentotrientinismo», a quel «Trento-e-Trieste», formula patriottica talmente indissolubile da far pensare a molti italiani lontani dal fronte che si trattasse di un’unica città (alcuni dicevano due città divise da un ponte, come Buda e Pest), gioverà ricordare che è solo propaganda per le masse, «favola bella» che gli «uomini d’ordine» (gli «atei devoti» dell’epoca, aggiunge Isnenghi) lasciavano usare nelle piazze, senza scaldarsi troppo in proprio. Forse sono proprio queste le considerazioni che il lettore troverà più nuove, certamente inusuali. Si scopre che in realtà Trento interessa molto poco, anche se è importante portare il confine «naturale» sul Brennero. Molto di più interessa Trieste, ma solo in quanto porto che può assicurare il controllo sull’Adriatico «lago italiano».
Le motivazioni della guerra sono tutte inscritte nella logica di potenza, nella volontà di affermazione di un imperialismo italiano che per tre decenni crederà di poter giocare un ruolo autonomo e importante, in un mondo che la guerra avrebbe però messo in crisi, distruggendo gli equilibri che avevano reso possibile l’egemonia della vecchia Europa.
L’ondata emozionale di patriottismo viene in prevalenza da sinistra. Nella quasi totale revisione delle appartenenze che la guerra provoca c’è ovviamente un «pullulìo di ex» (e Isnenghi qui riprende temi già ampiamente trattati nel suo Ritorni di fiamma dello scorso anno). Si forma la «strana coppia» Bissolati-Mussolini: il riformista sconfitto al congresso di Reggio Emilia del 1912 e il giovane rivoluzionario che l’aveva defenestrato dal partito.
«Energumeno» non molto ben visto dai comandi, il futuro Duce, e dopo una lieve ferita rispedito a fare ciò che meglio sa fare, cioè il giornalista-agitatore, col sussidio datogli dal governo francese e col compito – come si esprime il faccendiere Filippo Naldi con l’ambasciatore di Francia – di «raccoglie(re) intorno a sé e dirige(re) a un intento patriottico tutta la teppa dell’Italia settentrionale». Ma bisogna aggiungere che le sfumature tra interventismo «democratico», «rivoluzionario» o puramente nazionalistico sono destinate ad attenuarsi nel corso del conflitto.
Al di là di Cesare Battisti, imbalsamato nella dimensione di «martire» antiaustriaco, dello stesso Salvemini, influente in ristretti circoli intellettuali ma troppo professorale per parlare con successo alle truppe, di un Mussolini dall’audience molto limitata, l’unica figura che appare popolare è quella di Bissolati, ministro guerriero ascoltato al fronte, dai fanti come dai generali. Resta ben poco di socialismo riformista nella sua azione: avremo da parte sua l’approvazione dei metodi di Cadorna, decimazioni comprese, col triste primato conseguito dall’esercito italiano in questa forma di governo terroristico della truppa («pura rappresaglia nel mucchio, vendetta sociale allo stato puro», scrive Isnenghi), sia pur raccomandando «moderazione», ma pure addivenendo a minacce di fucilazioni «politiche» dei suoi ex-compagni dopo Caporetto.
Si crea una «grande area trasversale dell’adattamento – progressivo o di schianto – ai fatti compiuti» nella quale confluirebbero tutti i tre grandi «partiti di raccolta» del neutralismo, cioè liberal-giolittiani, cattolici e socialisti. Anche se è indubbio, il grande adattamento ai fatti compiuti che la successione degli eventi impone, si possono sollevare dubbi su alcuni giudizi di insieme che Isnenghi suggerisce, assai più che teorizzare.
«Perché e come una nazione intera cambiò alleanze e diventò interventista», recita la fascetta editoriale che accompagna il libro. Ma davvero l’Italia intera diventò interventista?
Ci sarà la fortissima pressione delle piazze del «radioso maggio» per intimidire un Parlamento in maggioranza giolittiano e neutralista, e che sarà chiamato a esprimersi solo a guerra già deliberata dal sovrano. Però in Italia non abbiamo le grandi manifestazioni popolari e proletarie che invadono le piazze inglesi e tedesche, e l’agitazione coinvolge esclusivamente una borghesia irriflessiva e manesca, che presidierà assai più le trincee del «fronte interno» che quelle scavate al fronte. Ma le piazze non erano solo interventiste, come testimoniano i numerosi studi raccolti nel volume curato da Fulvio Cammarano (Abbasso la guerra! Neutralisti in piazza alla vigilia della Prima guerra mondiale in Italia, Le Monnier, pp. 606, euro 29).
Il neutralismo silente
Cattolici, socialisti e liberali giolittiani erano la stragrande maggioranza del paese, e al di là di transfughi chiassosi e attivissimi il corpo fondamentale di questa maggioranza d’Italia non sarà mai intimamente conquistata alle ragioni della guerra. La costruzione di una memoria pubblica fondata essenzialmente sul mito unificante della Grande Guerra sarà impresa non semplice e laboriosa, inaugurata dalla classe dirigente del primo dopoguerra e portata a compimento dal fascismo.
In più, avremo in Italia l’unico partito socialista, accanto a quello socialdemocratico russo, che rifiuta la guerra e manterrà questo atteggiamento fino alla fine del conflitto (e nei suoi risvolti culturali e psicologici anche oltre), pur nelle difficoltà, le attenuazioni, gli equilibrismi dialettici che accompagnano il tormentato «non aderire né sabotare» (con un avvicinamento alle ragioni del «patriottismo» che avverrà solo dopo lo sfondamento delle linee a Caporetto, in un compromesso rifiutato da pochissimi, e tra questi in primo luogo Giacomo Matteotti).
Da qualche tempo Isnenghi sembra proporre in termini esemplari la personalità di Cesare Battisti, «tragica figura di irredento territoriale e redento politico», esempio di socialismo sensibile alle ragioni della patria che i suoi compagni ebbero il torto di non seguire, condannandosi a una sterile emarginazione dallo spirito nazionale. Ma le stesse pagine di Isnenghi mostrano la fortuna quasi inesistente del lascito politico di Battisti, a scapito della figura di martire patriottico che assorbirà interamente il suo ricordo. E la coerenza socialista nel rifiuto della guerra sarà alla base del prestigio presso le masse lavoratrici di quel partito, che si affermerà nelle prime elezioni democratiche del 1919 come il più grande partito italiano.
Quella che interviene dopo, come sappiamo, sarà un’altra storia, dove gli errori commessi si sommeranno anche e soprattutto a un enorme carico di violenza subita.
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