Visioni

Un haiku a altezza di bambino

Un haiku a altezza di bambino

Al cinema «Takara - La notte che ho nuotato» di Damien Marivel e Kohei Igarashi, il mondo osservato coi tempi e il candore dell'infanzia seguendo i vagabondaggi di un ragazzino

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 30 maggio 2019

È notte in un paesino tra le montagne giapponesi della regione Aomori e fuori nevica. Un pescatore compie il suo rituale domestico quotidiano prima di uscire per recarsi al lavoro al mercato del pesce. Nel tepore di casa rimangono la moglie e i due figli. Il più piccolo, Takara, beniamino seienne della famiglia, destato dai rumori del padre, non riesce più a riaddormentarsi e, mentre mamma e sorella affondano in un sonno profondo, trascorre la nottata trovando conforto nel gioco. Tra le sue silenziose attività notturne, Takara fa un disegno che infila nello zaino. L’indomani, insonnolito, è intenzionato a deviare dalla strada per la scuola per recarsi volontariamente in città, allungando così la lista dei tanti bambini cinematografici che da soli affrontano l’indecifrabile mondo degli adulti (elenco di cui fanno parte infiniti nomi, dal Doinel di Truffaut ai più underground Lana e Nico che in Little Feet di Alexandre Rockwell bigiavano per offrire un degno funerale acquatico al defunto pesce rosso).

VUOLE far visita al padre, che i turni di notte costringono a un’assenza non voluta, e consegnargli di persona il suo omaggio. È l’inizio di una breve avventura in tre capitoli (Il disegno, Il mercato del pesce, Un lungo sonno) che inizia tra ruscelli, cieli, nuvole e piccoli fiocchi di neve che solleticano il viso e prosegue nell’indifferenza della città, tra volti sconosciuti, strade trafficate e le luci anonime dei centri commerciali.
Takara – La notte che ho nuotato, presentato alla Mostra del cinema di Venezia del 2017 in Orizzonti, è un film piccolo come il suo protagonista, semplice come la storia che racconta. Ha il tratto sottile delle decorazioni giapponesi e la sincerità di un haiku. Quasi grafico nella sua essenzialità. Un film piccolo che sa guardare ai grandi (il viaggio, i bambini, come in Ozu) con ossequioso rispetto, senza l’intenzione, tantomeno la presunzione, di cercare antagonismi impossibili.

DECISIVO l’incontro dei due giovani autori che ne firmano la regia: il francese Damien Manivel di A Young Poet (menzione speciale a Locarno) e The Park (presentato a Cannes nel 2016) e il giapponese Kohei Igarashi (Hold Your Breath Like a Lover). Insieme, osservano il mondo con il candore dell’infanzia di cui rispettano i tempi, abbandonandosi al gusto per l’esplorazione, assecondando le imprescindibili digressioni nel gioco e nella noia. Rinunciano al dialogo (superfluo), ma non all’incanto e allo stupore della scoperta. Dall’osservazione del reale (il vero Takara e la sua famiglia) sanno distillare poesia. Per riuscire nel miracolo di comporre un minuscolo racconto che nelle sue fragilità nasconde i tratti universali della gentilezza e dei piccoli gesti d’amore.

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