Cultura

Un habitat come filo conduttore di terra e cielo

Un habitat come filo conduttore di terra e cieloPiero Marussig, «Cantiere», 1928

Mostre Dal bitume alle cicale fino ai cantieri e ai deserti pop: la rassegna curata da Stefano Verri, presso Palazzo Bisaccioni

Pubblicato più di un anno faEdizione del 8 febbraio 2023

Il rapporto uomo natura sembra il più ovvio e generico da ritrarre nella rappresentazione artistica, eppure nell’allestimento di Habitat. Le forme e i modi della natura (mostra promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Jesi in collaborazione con Intesa Sanpaolo e curata da Stefano Verri a Jesi, a Palazzo Bisaccioni, visitabile fino all’11 aprile), il tema è trattato e presentato con un occhio e una grazia insoliti.

INNANZITUTTO è notevole il patrimonio a disposizione delle collezioni di Intesa Sanpaolo, messo insieme con contributi diversi, opere che arrivano per cammini differenti. Ci sono Picasso, Balla, Schifano, Fontana, Pirandello, Eliasson, ma nessun nome altisonante è nella locandina a fare da specchietto per allodole e dare assist al merchandising, cosa apprezzabile anche se una Fondazione non ha bisogno di emettere biglietti e l’ingresso è gratuito.
Le opere in mostra sono proposte da Verri allo spettatore senza seguire una linea del tempo ma accostate pensando a un percorso circolare (similmente all’economia ecosostenibile) e in modo che abbiano qualcosa da dirsi e da dirci, come gli ospiti disposti ai tavoli di un ricevimento. Due gli ambienti, il primo più crepuscolare, dedicato alla terra, anche quella vista dalla luna; il secondo prevalentemente all’acqua, ai giochi d’acqua si potrebbe dire, per la cifra ludica e luminosa che lo connota.
Il giro attorno al nostro Habitat, la casa che Greta Thunberg denuncia in fiamme, potrebbe avere gioco facile attorno a riflessioni ecologiche dirette che invece sono lasciate ai margini, dette per sottrazione, come sottratta è la figura umana pur evocata da molti indizi: quelli legati alla sua operosità, il work in progress e le sorti progressive dei paesaggi industriali di Ernesto Treccani (Il ponte di ferro alla Renault) e Piero Marussig (Cantiere). L’habitat che il curatore ha rinvenuto come filo conduttore nelle opere selezionate è più quello dell’accezione botanica del termine: l’area nella quale si trovano condizioni favorevoli allo sviluppo.

Enrico Baj, «Sulla luna i cieli sono di tappezzeria», 1958

E SPESSO L’EVOLUZIONE avviene in regioni, e con modalità che non ci si aspetta: sotto cieli fatti di tappezzeria che sovrastano terra di bitume (Enrico Baj), nell’aria che vibra di cicale di Jan Fabre che usa tratti di penna a sfera e gli insetti veri. Nella luce della luna che colpisce un wasserfall celeste in Nuova Zelanda nella stampa cromogenica di Darren Almond. Gioco di sintesi con tracce umane quello di Valerio Adami che realizza i suoi acrilici pop (esposto c’è Deserter) a partire da foto inviate da gente comune o da scampoli di articoli di giornale.

LA NATURA di Habitat è quella di Baudelaire, un tempio dove in alcune parole mormorano pilastri che son vivi (così nel grande dittico a collage di carte colorate di Andrea Mastrovita dove i guerriglieri sparano le lettere della parola «Love»), una foresta di simboli che l’uomo attraversa (i lavori fotografici di Luca Maria Patella e Giuseppe Penone), ma anche quella di Galileo, che parla attraverso segni matematici: la sequenza di Fibonacci nella chiocciola di Mario Merz e i segni acrilici del lavoro di Roberto Crippa che potrebbero tracciare la topografia di una città come i frattali di un vegetale.

Pablo Picasso, «Le peintre et son modèle en plein air», 1963

NELL’ITINERARIO molto democratico di Verri i big aspettano pazienti il loro turno senza darsi arie da superstar, anzi mostrandosi con abiti (e habitat) insoliti: Picasso appare alla chetichella, come un cameo di Hitchcock, nella propria tela (Le peintre et son model en plein air del 1963) con cappello da Torero, inghiottito dal verde.
De Chirico gioca a fare Canaletto con un Canal Grande dove lo tradiscono il cielo e le tende sgargianti alle finestre poco manieriste. Balla non è Fantaballa, ma l’autore di un sobrio scorcio di Villa Borghese con orto, muro e una siepe. Mentre l’omaggio alla Marche, habitat della mostra, è con Eliseo Mattiacci che in catalogo è dirimpettaio di Arnaldo Pomodoro, marchigiano d’elezione.

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