Un grido di sdegno da raccogliere
Quando i giudici di Cassazione dalle solenni stanze del “Palazzaccio” romano usano espressioni come «accantonamento dei princìpi cardine dello stato di diritto»; quando parlano di cittadini sottoposti a «trattamenti gravemente […]
Quando i giudici di Cassazione dalle solenni stanze del “Palazzaccio” romano usano espressioni come «accantonamento dei princìpi cardine dello stato di diritto»; quando parlano di cittadini sottoposti a «trattamenti gravemente […]
Quando i giudici di Cassazione dalle solenni stanze del “Palazzaccio” romano usano espressioni come «accantonamento dei princìpi cardine dello stato di diritto»; quando parlano di cittadini sottoposti a «trattamenti gravemente lesivi della dignità della persona»; quando specificano che «botte, gas urticanti, umiliazioni, denudamenti di ragazzi e ragazze fatte piegare a novanta gradi davanti agli uomini in divisa» avvenivano «mentre alcuni tra le forze dell’ordine cantavano inni fascisti»; quando si legge tutto questo nelle motivazioni di una sentenza definitiva riguardante 40 persone fra agenti e medici delle forze dell’ordine, dovremmo chiederci dov’è finito lo stato democratico, in quale abisso amorale è precipitata la dignità delle istituzioni.
Le durissime parole degli alti magistrati sugli orrori di Bolzaneto durante il G8 di Genova del 2001 sono un potente grido di sdegno e di richiamo alla legalità costituzionale, ma contengono in sé il sapore dell’impotenza. Parole così gravi e così forti chiudono una stagione iniziata nel luglio 2001, ma questi dodici anni, per molti aspetti, sono trascorsi inutilmente. I fatti storici avvenuti nella caserma genovese in un clima «di vessazioni continue e diffuse» sono noti da molto tempo grazie alle testimonianze delle vittime, al lavoro di avvocati e magistrati, eppure sono stati scientemente ignorati – potremmo dire accantonati, come lo stato di diritto all’interno della caserma. Perciò le parole della Cassazione oggi colpiscono e sconvolgono i pochi che vi prestano attenzione ma in reatà sono pronunciate in un vuoto politico e culturale desolante. Sono parole che non avranno seguito. Non ora, non nel contesto politico e informativo attuale.
La sentenza Bolzaneto come la sentenza Diaz dell’anno scorso non hanno prodotto il terremoto politico e istituzionale che sarebbe stato necessario. Se non fosse stato per la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, inflitta ai dirigenti di grado più alto imputati nel processo Diaz, tutto ma proprio tutto sarebbe rimasto come prima. Capi della polizia al loro posto, condannati e prescritti lasciati tranquillamente in servizio, zero approfondimenti sullo stato di salute democratica delle forze di sicurezza e sui meccanismi interni di verifica e sanzione degli abusi. Non ci sono riforme in vista e nemmeno provvedimenti sui singoli punti emersi in questi dodici anni, ad esempio sulla riconoscibilità degli agenti in servizio di ordine pubblico tramite codici su caschi e divise (provvedimento consigliato addirittura nel 2001 dall’ispettore Pippo Micalizio inviato a Genova dopo il G8 dal capo della polizia Gianni De Gennaro).
È vero, è cominciato nei giorni scorsi l’iter parlamentare per introdurre il crimine di tortura nel nostro ordinamento. Ma il testo di legge dal quale è partita la discussione (ne hanno scritto Manconi e Resta su questo giornale) è il degno frutto dell’opera di occultamento e rimozione dell’eredità di Genova G8 condotta scientificamente per dodici anni ai piani alti del potere politico, poliziesco e mediatico di questo paese. I parlamentari che hanno steso quel testo si sono rifiutati di qualificare la tortura come reato specificio del pubblico ufficiale; hanno cioè ignorato gli standard normativi internazionali pur di assecondare le poco responsabili pretese dei vertici degli apparati. Un testo simile, al cospetto del meditato giudizio della Cassazione, ha i contorni di una beffa. L’introduzione del reato di tortura, invocato anche da pm e giudici del processo Bolzaneto, ha soprattutto finalità di prevenzione, specie in un paese come il nostro, nel quale i vertici delle forze dell’ordine, anche di fronte ad abusi clamorosi e innegabili, hanno mostrato verso i propri uomini l’istinto della protezione corporativa (e diciamolo: antidemocratica). Un testo serio, vero, di rifiuto e punizione della tortura serve a mandare un messaggio forte e preciso a chi veste una divisa: un messaggio di civiltà, di trasparenza, il segno tangibile della non sindacabilità dei diritti umani fondamentali. Serve ad avviare un cambio vero di cultura e di mentalità, verso il recupero della logica della prevenzione come motore di pensieri e comportamenti, oggi asserviti a un sempre più cieco spirito di repressione. Una seria legge sulla tortura dev’essere la premessa logica di una nuova riforma democratica delle forze di sicurezza. Il testo oggi all’esame del parlamento rischia invece di mandare il messaggio opposto. Sembra dire: questa legge ci tocca farla per via degli impegni internazionali, ma niente alla fine cambierà. L’opzione corporativa, il rigetto della trasparenza continueranno a dominare la vita interna ai corpi di polizia. Di fronte ad abusi e prepotenze continueremo a parlare di mele marce.
I giudici di Cassazione, su Bolzaneto come nel caso Diaz, hanno parlato così chiaro che la ripresa del dibattito parlamentare sulla tortura sarà un evento surreale, se ancora una volta il Palazzo resterà cieco e sordo, insensibile a ogni richiamo. Più in generale e guardando allo stato dei diritti civili e sociali del nostro paese, possiamo dire che l’inusuale grido di sdegno dei giudici di Cassazione rischia di rivelarsi un urlo di disperazione, se dalla cittadinanza attiva, quella che ancora crede nella Costituzione, non arriva una risposta all’altezza della sfida che anche su questo fronte si profila.
* Comitato Verità e giustizia per Genova
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