Era già successo anni fa con Acqua storta (Meridiano Zero, 2010): nel graphic novel disegnato da MP5, scritto da Valerio Bindi e tratto dal romanzo di Carrino, si raccontava l’amore omosessuale nel contesto violento della camorra napoletana. Fehida (minimum fax), disegnato da Raffaele Sorrentino su soggetto di Tommaso Renzoni, raccoglie la tematica, estendendola a un’interessante e più ampio questionamento dell’identità maschile e ambientandola stavolta tra la Calabria e la Germania. Il racconto è ispirato infatti alla faida di San Luca e racconta gli omicidi tra le famiglie dei Mancuso e dei Romeo, seguendo i protagonisti Luca e Francesco dall’infanzia fino alla fine della loro lotta. Abbiamo incontrato gli autori al Bookpride di Milano e ne abbiamo parlato con loro.

Raffaele sei un disegnatore legato a realtà di autoproduzione, sei stato editor per Canicola edizioni, lavori come grafico; Tommaso, sceneggiatore e autore per la tv. Come nasce il vostro graphic novel?
Tommaso Renzoni (T.R.): L’editor di minimum fax mi aveva proposto di lavorare a un soggetto che trattasse temi di criminalità, per la collana Cosmica. Ho scelto la faida di San Luca e l’abbiamo rimaneggiata per raccontare una storia di maschile e di destini dai quali non si può scappare.
Raffaele Sorrentino (R.S.): Quando mi è stato inviato il soggetto me ne sono innamorato, vi ho trovato un modo di scrivere che sentivo vicino al mio, simile a come avrei affrontato io la stessa materia. Quindi abbiamo iniziato a lavorare insieme, come Muñoz e Sampayo in Alack Sinner, ci siamo rimpallati la sceneggiatura molte volte, per poi arrivare alla bozza finale, allo storyboard e al disegno.

La storia è ispirata alla faida di San Luca, sulla quale vi siete documentati anche per allontanarvene.
R.S. Io mi sono informato meno Ho cercato di mantenere una distanza per non rimanerne troppo influenzato.
T.R. il fumetto parte da una storia reale per offrire una sintesi. L’obiettivo era quello di raccontare una storia che fosse utile alle nuove generazioni non in termini di messaggio antimafia, ma nella collocazione dei giovani uomini nel mondo.

La storia inizia con la sequenza di un sorteggio tra i ragazzi della famiglia Mancuso per scegliere chi lancerà le uova contro i Romeo. La scena è un’anticipazione del tema del destino e della predestinazione. Come lo si sposta dalla mentalità mafiosa alle pagine di un fumetto?
R.S. Sì, l’idea dell’impossibilità di scappare dal destino è forte ed è ripresa in diverse scene del libro.
T.R. C’è il sorteggio, ci sono questi tre anziani patriarcali, che fanno da coro greco ma che appaiono come le tre parche, in occasione delle morti. Ci piaceva l’idea di seguire la struttura e i ruoli della tragedia greca, la presenza del coro, l’andamento della trama, con un climax e una discesa. Quando si parla di destino si scomodano modelli alti, archetipici. Il tema del destino è legato a un concetto di vita come catena, un destino che lega. I tre anziani decidono invece le sorti dei personaggi, nel nostro caso, riempiendo una schedina del totocalcio.

La faida tra Mancuso e Romeo è in effetti manovrata dai vecchi mafiosi del paese, che ordinano l’uccisione di Antonio sentenziando: «Il ramo poteva essere fiore e invece diventa foglia a mezzanotte». Ho avuto l’impressione che la loro credibilità venga relativizzata; l’esempio della schedina, il banchetto con i ghiri arrosto, sono elementi usati per mettere in discussione lo stereotipo della grande madre?
T.R. Non sopportiamo vedere prodotti audiovisivi o in generale di narrazione che parlano della mafia che anche nel loro essere critici finiscono per glorificarla. Hanno toni retorici, lirici, che fanno assumere un aspetto apologetico e finiscono per essere racconti di potere, che rischiano quasi di servire da ispirazione.
R.S. Per quanto il sistema mafioso e il discorso che lo circonda si prestino benissimo alla mitizzazione della criminalità, ci interessava mantenere una dimensione umana, costruire un discorso per cui i personaggi rimangano in balia degli eventi: non c’è niente di mitico in quello che fanno, affrontano solo scelte obbligate.

La storia omosessuale sfuggirebbe a questo schema lineare…
T.R. Tutte le libertà sono giocate all’interno dei margini imposti dal sistema. La storia omosessuale è rivoluzionaria solo ontologicamente, poiché è proibita, in opposizione alla volontà del sistema e a quella delle famiglie, è shakespeariana nella sua essenza. Abbiamo usato Romeo e Giulietta per parlare della mafia, mentre di mafia si parla spesso citando Riccardo III o Amleto. Abbiamo scelto il riferimento romantico.

Rispetto alle scelte grafiche e cromatiche, quali erano gli obiettivi e ci sono autori che vi hanno ispirato?
R.S. Per quanto riguarda i colori, con Riccardo Pasqual abbiamo lavorato a lungo. Non volevamo un colore realistico ma una palette emotiva, infatti ogni fazione della faida ne ha una diversa. Volevamo che il colore trasmettesse una sensazione e che aiutasse nella lettura dei piani temporali. In generale, guardo ai fumetti di Paolo Bacilieri con attenzione e ammirazione, come si fa con un padre putativo; mi piace molto anche il primo Francesco Cattani. Poi con Canicola ho avuto la fortuna di lavorare come editor sul libro di Tadao Tsuge, L’uomo senza talento. Lui e Tatsumi, esponenti della corrente del gekiga, sono insieme a Otomo i miei autori preferiti.

Entrambi avete alle spalle esperienze a budget ridotti (Tommaso con il film «Margini») o in realtà di autoproduzione (Raffaele con il collettivo Canemarcio). Come si situa questo fumetto rispetto a quelle esperienze?
T.R. Una mia tensione è quella di raccogliere aspetti che nella militanza si rivolgono al gruppo ma risultano spesso divisivi. Margini e Fehida parlano di qualcosa di lontano per coloro che non appartengono direttamente alle culture di riferimento (quella punk hard core di fine anni ’90 per il film e quella mafiosa della ‘ndrangheta per il libro) ma offrono spazi di lettura, di possibile riconoscimento e rispecchiamento.

Il vostro pubblico ideale, che immagino composto da giovani lettori maschi, potrebbe non sentirsi proprio a loro agio di fronte al tema della ricerca dell’identità…
R.S. Infatti, ma la scomodità presuppone comunque un’emozione; quindi ben venga, vuol dire che l’opera in qualche modo «arriva». Per me è un ottimo risultato.
T.R. In queste storie si ammazza tantissimo e in qualche modo l’omicidio diventa un tema del maschile. Volevamo che ogni uccisione fosse sbagliata, rimanesse ingiusta e per questo abbiamo lavorato per umanizzare le vittime.

Per esempio presentandoli prima della loro morte.
T.R. Esatto, il modo migliore per renderli umani. I ragazzi sono sottoposti attraverso i videogiochi a un numero altissimo di uccisioni e giocando si tende a spersonalizzarle, perché diventano un punteggio.
R.S. Abbiamo lavorato per ellissi, per far sì che la violenza non diventasse il fulcro centrale del racconto. La questione del gioco è interessante: per esempio nel videogioco The last of us la seconda parte mostra a ritroso la vita dei personaggi che hai massacrato, e questo come giocatore ti fa stare scomodo, fa riflettere.

Il libro sembra chiamare i maschi a prendere posizione, a scegliere un’identità e un destino, ma avete inserito un personaggio femminile che pur non apparendo molto, è comunque importantissimo.
T.R. In mezzo a molti e bellissimi libri dedicati al femminile questa storia richiedeva che si raccontasse l’aspetto della deriva del maschile in un contesto di massima aggressività. Il personaggio femminile proviene dallo studio degli atti processuali, questa figura femminile che rappresentiamo, è sempre stata affianco a Luca, forse è stata l’unica che è riuscita a metterlo in contatto i suoi lati umani. Quando lei muore, capiamo che lui muore con lei, non ha più niente da perdere.