Un governo per la politica europea. Il paradosso italiano
Mario Draghi L'eventuale nuovo esecutivo sarà messo alla prova sulla capacità di trasformare l'Italia da paese richiedente, perché maggiormente colpito dalla pandemia, in elemento propulsore di un processo di unificazione politica dell'Europa
Mario Draghi L'eventuale nuovo esecutivo sarà messo alla prova sulla capacità di trasformare l'Italia da paese richiedente, perché maggiormente colpito dalla pandemia, in elemento propulsore di un processo di unificazione politica dell'Europa
Se i partiti politici – senza eccezioni, da Leu alla Lega – non fossero così impegnati a rilasciare cambiali in bianco al presidente del consiglio incaricato, ignorando le regole più elementari di una Costituzione parlamentare, formulerebbero richieste pubbliche corrispondenti ai propri orientamenti, per poi subordinare il proprio voto di fiducia a riscontri verificabili nel programma e nella composizione del governo.
Giustamente Mario Pianta (cfr. il manifesto, 9 febbraio) ha individuato nel profilo europeista di Mario Draghi un’opportunità, rafforzata da alcuni risultati ereditati dal governo Conte (le risorse del Next Generation Eu, la sospensione del Patto di stabilità e del divieto di aiuti di stato alle imprese) che, però, dovranno essere consolidati e specificati in un futuro prossimo. Tuttavia, forte di queste pur precarie acquisizioni, l’eventuale nuovo governo giocherà la propria nobilitade sulla sua capacità di trasformare l’Italia da paese richiedente, perché maggiormente colpito dalla pandemia, in elemento propulsore di un processo di unificazione politica dell’Europa.
Né vale l’alibi tradizionale dell’esiguità della forza a nostra disposizione. A ben vedere, sono proprio i paesi meno condizionati da una fin troppo robusta e gloriosa storia nazionale, o addirittura segnati da pagine ingloriose della propria storia – in primo luogo Germania, Italia, Spagna – ad essere portati a emanciparsi dal proprio passato e a guardare con speranza ad un futuro di segno diverso. Inoltre, la contingenza segnata dalla conclusione del decennio dominato dal cancellierato di Angela Merkel offre all’Italia l’occasione di assumere le proprie responsabilità di paese fondatore, resistendo alla tentazione di inserirsi nell’asse Parigi-Berlino, a scapito di altri esclusi.
In una fase storica segnata da una transizione travagliata e pericolosa dal bipolarismo militarizzato e connivente, ereditato dalla guerra fredda, ad una multipolarità non governata, l’Europa, ancora imprigionata da antichi nazionalismi ed inediti sovranismi, rischia di restare terreno di conquista e di possibili conflitti tra soggetti più forti perché unificati al proprio interno. Incombono gli Stati Uniti, la Cina, residualmente la Russia, e persino la Turchia, in un’area non soltanto geograficamente vicina alla nostra. In tal modo mezzo miliardo di persone sono deprivate di una rappresentanza e una voce a livello globale.
In primo luogo, il governo italiano è chiamato a trasformare adempimenti che vengono richiesti da Bruxelles in elementi cogenti per l’Europa nel suo insieme. Ad una riforma fiscale fortemente progressiva (in palese contraddizione con la trumpiana flat tax invocata dal senatore Salvini), in lotta contro l’elusione dei grandi capitali, dovrebbe corrispondere l’abolizione dei paradisi fiscali intra moenia, nella prospettiva di una politica finanziaria unificata europea. Una riforma semplificatrice della pubblica amministrazione e della giustizia civile non può escludere una riforma di quella penale, senza la quale il contrasto alla corruzione pubblica e privata, il riciclo di denaro sporco, l’illegalità transnazionale delle grandi imprese resterebbero parole vuote, anche a livello europeo.
Ad una nostra politica immigratoria, rispettosa delle convenzioni sui diritti d’asilo e, in ogni caso, a salvaguardia delle vite umane, che non abbiano più nulla a che fare con le pratiche messe in atto dai Minniti e dai Salvini, deve corrispondere una politica europea che ponderi equamente oneri e risorse in tutto il territorio continentale, di fronte ad una sfida destinata a restare epocale. L’immediata adozione dello ius soli in Italia fornirebbe l’occasione per estenderlo all’Europa intera.
Tutto ciò, è evidente, comporta una politica estera e di sicurezza sempre più unificata che può e deve essere rivendicata e promossa dall’Italia. L’Europa non è minacciata da un’invasione del claudicante erede dell’Unione Sovietica. La minaccia cinese, vera e presunta, non ha certo una configurazione militare. La presenza armata degli Stati Uniti, con una dimensione nucleare, corrisponde ad un’esigenza di sicurezza europea? Le guerre indette dagli Stati Uniti sotto copertura Nato, per lo più perdenti nei loro esiti, non corrispondono ad interessi europei.
Le politiche, più subite che volute dai suoi membri europei, in Medio Oriente e in Africa, non sono compatibili con la professione di diritti umani, che per avere qualche efficacia, devono essere universalmente sostenuti, a Hong Kong come in America Latina, sia in Ucraina che nei territori dominati da Israele.
E che dire del rispetto di regole democratiche all’interno della stessa Unione Europea? Ursula von der Leyen, ancora ministra della difesa a Berlino, è stata tra gli iniziatori di un troppo prudente processo di unificazione militare dell’Europa, tradizionalmente favorito da Parigi. Esso può essere portato avanti a scapito della freddezza (per usare un eufemismo) dell’amministrazione Biden per le sue anche immediate ripercussioni sulla Nato.
A suo tempo fu introdotto, in sede di Unione, il principio di sicurezza umana, sostitutivo di quello puramente militarizzato. Cosa ne pensa Mario Draghi? A quale politica estera, italiana ed europea, vuole impegnare il suo governo e la maggioranza parlamentarle chiamata a sostenerlo?
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