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Un gioco sporco

Un gioco sporco

Il documentario Le contaminazioni provocate in Ecuador dalla Chevron Texaco e le manovre per non pagarne le conseguenze

Pubblicato quasi 8 anni faEdizione del 4 febbraio 2017

Un ecocidio di proporzioni immani nell’Amazzonia ecuadoriana. Interi villaggi contaminati. Una vertenza internazionale con una potente multinazionale Usa, la Chevron-Texaco. Un giornalista statunitense, di madre ecuadoriana, inviato sul posto per un’indagine precostituita. Sono gli elementi del film Il gioco sporco (El juego sucio – www.eljuegosucio.com). «I nomi sono di fantasia, ma i fatti reali» – recita la premessa del film. A dirigerlo, la regista cubana Nitsy Grau, artista e sceneggiatrice, vincitrice di cinque premi internazionali per il lungometraggio Medardo (2014, Ecuador-Olanda). Attualmente, è produttrice teatrale a Miami. Sul set, un cast di volti noti, come il venezuelano Frank Bonilla, Cinthia Coppiano, Paty Loor…
UN CASO GIURIDICO
Il film restituisce il quadro di una complessa partita giuridica tutt’ora in corso, che rischia di portare alla bancarotta lo stato ecuadoriano. Dopo aver subito una prima condanna, nel 2009 la compagnia petrolifera ha denunciato lo stato ecuadoriano presso tre Tribunali d’Arbitraggio, per presunte violazione del Trattato bilaterale di Promozione e Protezione degli Investimenti (Tbi): quel trattato – dice – liberava l’allora Texaco da ogni responsabilità. In uno dei tre, ottiene ragione e l’Ecuador viene condannato a pagare 96 milioni di dollari, un altro procedimento è in corso. Nel 2013, un altro giudice favorevole a Chevron ha addirittura accusato le popolazioni indigene di estorsione, in base alla legge Rico che serve alla lotta contro le mafie e il crimine organizzato.
Dopo l’elezione di Trump e quella a Segretario di Stato del petroliere Rex Tillerson, ex capo della Exxon Mobil, le organizzazioni ambientaliste hanno raddoppiato l’allerta e il film si sta proiettando in tutto il mondo. A Roma, dopo essere passato all’Istituto Italo Latinoamericano (Ila), si potrà vedere oggi all’Aiasp (viale Irpinia, 50) alla presenza di ospiti ecuadoriani.
Per comprendere le origini della vicenda, bisogna tornare agli anni che vanno dal 1964 al 1992. Allora, la compagnia petrolifera Texaco, che si è fusa con la Chevron nel 2001, ha potuto sfruttare le riserve di idrocarburi senza osservare le norme ambientali previste. Due milioni di ettari dell’Amazzonia ecuadoriana sono stati impregnate di petrolio, le persone che abitavano i villaggi del circondario si sono ammalate di tumore, perché i fiumi in cui si lavavano o si alimentavano erano contaminati. In quella porzione di selva tropicale, vivono popoli indigeni ancestrali: Siekopai, Sionas, Cofanes, Waorani, Tetetes, Sansahuari…
Nel 1993, 30.000 indigeni e contadini residenti nelle province di Orellana e Sucumbíos (nel nord dell’Amazzonia), riuniti nell’associazione Unión de Afectados por las Operaciones de Texaco, (Udapt), denunciano la multinazionale e chiedono un indennizzo a un tribunale di New York: per aumentare i profitti – dicono – la Texaco ha risparmiato sulla sicurezza delle popolazioni e dell’ambiente, provocando un disastro ambientale. Le indagini mostrano, per esempio, che tutte le «piscine» di piccole dimensioni, che superavano in media i 300 metri quadrati, sono state costruite il più vicino possibile alle fonti d’acqua di superficie. In questo modo, ha versato intenzionalmente nei fiumi dell’Amazzonia oltrer 16.000 milioni di galloni di acqua mischiata ai prodotti usati per l’estrazione, quindi tossica. Considerando che un gallone è pari a 4,546 litri, si può intuire l’entità del disastro per le popolazioni che hanno dovuto servirsi per anni di quell’acqua. A tutt’oggi, gli svasi di crudo ai quali non è mai stato posto rimedio, hanno intriso di petrolio oltre 1.500 km di strade o di sentieri. Oltre 450.000 ettari di bosco tropicale amazzonico sono andati distrutti. Secondo la legge ecuadoriana dell’epoca e in base ai contratti, la multinazionale avrebbe dovuto utilizzare le tecniche più avanzate possibili per evitare l’impatto ambientale e i danni alla popolazione. Ma non l’ha fatto.
STRATEGIE CHEVRON
Per tutelare i propri interessi, Chevron ha adottato diverse strategie, tra artifici giuridici e campagne di discredito della parte avversa. Innanzitutto, ha cercato di influenzare il governo dell’epoca con il quale ha sottoscritto un trattato bilaterale per un impegno a rimediare al danno causato. In secondo luogo, ha convinto i giudici che il sistema Usa non era quello adatto a decidere e che, in caso, la vertenza avrebbe dovuto aver luogo nei tribunali dell’Ecuador. Dopo nove anni, Chevron l’ha avuta vinta su questo punto, e la palla è passata in campo ecuadoriano. Un passo falso, perché nel frattempo l’Ecuador aveva scelto la «revolucion ciudadana» di Rafael Correa e un’attitudine ben diversa quanto a governo delle risorse e rispetto dell’ambiente. La Costituzione ecuadoriana, approvata dopo un’ampia discussione nel paese, contempla un vasto arco di diritti, nel solco dei cambiamenti inaugurati dalla rivoluzione bolivariana in Venezuela. Anche la natura viene considerata un soggetto portatore di diritti. Quando la denuncia viene ripresentata in Ecuador, la Chevron prova a sostenere che il sistema giuridico ecuadoriano non è compentente.
BATTAGLIA CONTADINA
Nel 2011, però, l’associazione Udapt (nel film la battagliera avvocata dei contadini ha il volto di Paty Loor) riesce a vincere la causa: Chevron dovrà risarcire le popolazioni colpite con 9.500 milioni di dollari, che verranno destinate alle operazioni di bonifica della zona. Sentenza confermata. Il 12 luglio dell’anno scorso, la Corte di Giustizia di Sucumbíos ha ingiunto alla compagnia di adempiere alle disposizioni di sentenza emesse dalla Corte di Columbia (negli Stati uniti), che ha ordinato alla Chevron di pagare 96 milioni di dollari, ma finora non se n’è fatto niente. Durante questi anni di processo, la compagnia ha ritirato tutti i fondi che aveva in Ecuador, impedendo di fatto l’esecuzione della sentenza. Fino a oggi, l’equipe di avvocati che assiste l’Udapt ha rilanciato il contenzioso presso tribunali statunitensi, canadesi, ecuadoriani, brasiliani, argentini e anche presso la Corte penale internazionale. Ha fatto riferimento a diverse sentenze sui diritti umani delle Naazioni unite, ma senza avere mai avuto soddisfazione piena. I mezzi a disposizione delle grandi corporations sono infinitamente superiori a quelli delle comunità. Chevron può permettersi di spendere milioni di dollari e pagare i più grandi studi legali ed esperti in ogni paese, e anche giornalisti, lobby di pressione, imprese di spionaggio come la Kroll, una delle più grandi del mondo. Il film parte appunto da un tentativo di assoldare un grande reporter diventato scomodo, per cercare di ricondurlo nei binari consueti. Gioco sporco mostra la strategia utilizzata fino a oggi dalla multinazionale per impedire o inquinare le prove giudiziarie. In uno dei momenti salienti, racconta il gioco sporco della Kroll che, alla fine del 2013, ha rivelato di aver fatturato oltre 15.000.000 di dollari alla Chevron, proprio per spiare e screditare il lavoro dell’Udapt. Un’altra tattica, è quella del ricatto sui governi a cui si rivolte l’Udapt. Per esempio, quando la causa è stata depositata in Argentina, Chevron ha offerto di investire milioni di dollari nelle perforazioni del gigantesco giacimento di Vaca Muerta, in cambio del blocco della causa. La Corte Suprema argentina, il 4 giugno del 2013, ha agito in tal senso e il 16 luglio dello stesso anno il governo argentino ha sottoscritto un contratto con la Chevron.
PARADISI FISCALI
Legalità del più forte contro legittimità del diritto. Chevron è una delle corporazioni più opache al mondo, protetta da oltre 77 imprese sussidiarie, la maggior parte delle quali hanno sede nei paradisi fiscali. E proprio contro i paradisi fiscali e per l’istituzione di un codice edico per imprese e politici, si svolgerà un referendum lo stesso giorno delle elezioni, il 19 febbraio. Al contempo, i paesi socialisti dell’America latina chiedono l’stituzione di una giustizia ambientale per processare i crimini delle multinazionali, che non sia basata negli Usa. Una campagna che ha ricevuto il sostegno di diversi organismi internazionali (Mnoal, Unasur, Celac, G77 più Cina) e anche del papa Bergoglio.
La lunga battaglia dell’Udapt contro Chevron mostra l’architettura protettiva costruita dalle multinazionali, che travalica i governi e garantisce loro l’impunità.

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