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Un gioco semplice dove si intrecciano politica e potere

Un gioco semplice dove si intrecciano politica e potere

Le «sorprese» calcistiche dei mondiali, un mondo nuovo non troppo diverso da quello vecchio «Il calcio è un gioco semplice, ventidue uomini inseguono il pallone per novanta minuti e alla fine la Germania non è più quella che vince sempre». L’ha dovuto ammettere anche […]

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 4 luglio 2018

«Il calcio è un gioco semplice, ventidue uomini inseguono il pallone per novanta minuti e alla fine la Germania non è più quella che vince sempre». L’ha dovuto ammettere anche Lineker, parafrasando una sua antica frase passata alla storia. I tempi sono cambiati, o comunque siamo ai supplementari: cadono gli dei, i giocatori più attesi, crollano le certezze, le squadre date per favorite. È la fine del mondo. O forse no. A guardare bene si sono comunque qualificate per i quarti di finale squadre che hanno sempre bazzicato i piani alti della competizione.

E anche agli scorsi mondiali tra le ultime otto c’erano a sorpresa Costa Rica e Colombia, in quelli precedenti Ghana e Paraguay. E prima ancora l’Ucraina, abbattuta da Toni, ce lo ricordiamo bene. Semplicemente la Germania ha scontato la maledizione dei campioni in carica, da anni fuori al primo turno nel torneo successivo. La Spagna ha chiuso un ciclo meraviglioso che non poteva essere eterno, senza Xavi e con Iniesta agli sgoccioli, e il pasticciaccio Lopetegui ha fatto il resto. L’Argentina con Messi parte sempre favorita ma poi non vince nulla, nemmeno una Copa América.

E al Portogallo non poteva certo bastare il solo Ronaldo per vincere. Non ci credeva nessuno, forse solo I Simpson che anni fa l’avevano pronosticato in finale contro il Messico. Alla fine l’unica vera sorpresa è stata la mancanza di squadre africane nei turni eliminatori, non accadeva da quarant’anni, non fosse che oggi più di ieri, quando ci si limitava alle colonie, in molti sport i migliori atleti africani sono cooptati, naturalizzati, acquistati dai paesi europei. Se la Francia a fronte di una percentuale di popolazione migrante inferiore al 7% ne ha in nazionale circa l’80%, in Belgio (12% e 49%) ci sono addirittura i centri sportivi qatarioti di Aspire, che prendono bambini da tutta l’Africa e li spediscono nel cuore del vecchio impero coloniale a cercare di diventare i nuovi Messi, o Mbappé, che con le gerarchie cambiano anche i sogni.

In un prossimo futuro i migliori, che vinceranno i documenti nella ruota della fortuna della meritocrazia sportiva, giocheranno i Mondiali con la maglia dei diavoli rossi e il marchio di provenienza del Qatar. Con buona pace del paese di origine. Non è la fine del mondo. Al massimo è un mondo nuovo, e non è poi nemmeno così diverso dal vecchio. Nemmeno nei conflitti. Se a Brasile 2014 le proteste erano esplose nelle strade, ma la vera guerra si è giocata nelle aule di tribunale che hanno messo fine all’esperimento di governo socialista, a Russia 2018 è in atto un duello puskiniano tra Qatar e Arabia Saudita.

La guerra geopolitica in corso, destinata a ridisegnare le sorti del Medio Oriente e dei paesi arabi, si è imposta sul Mondiale con l’esplosione definitiva di BeOut, canale pirata sovvenzionato dai sauditi che trasmette gratis le partite di BeIn, storico canale qatariota che i diritti li ha comprati.

Nonostante le proteste formali dei prossimi organizzatori della competizione la Fifa tace, anche per non disturbare una Russia che procede maestosa sul campo – e ci mancherebbe, visto che è il paese organizzatore e il pallone non nasce certo innocente e libero da tributi da versare – e fuori, offrendo uno spettacolo imponente per la gioia dello Zar. Perché il calcio è un gioco semplice, ma non smette mai di raccontare storie che intrecciano politica e potere. E anche un’eventuale semifinale tra Inghilterra (arrivata ai quarti dopo un faticoso 5-4 ai rigori contro la Colombia) e Russia, con il caso Skipral ultimo episodio di una guerra di spie che non è mai finita e la questione araba sullo sfondo, sarebbe degna di un romanzo di Le Carré.

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