Si sa, la poesia offre quell’inatteso compiersi delle scritture che altre forme raramente consentono. Soprattutto nel passo breve e affannoso di un’editoria per così dire maggiore, che progetta ogni nuovo libro – copertina giusta, presentazione giusta, magari fascetta giusta, anticipazioni sui soliti fogli e qualche vivace comparsata in tv e radio. E tu, che li scrivi, i libri-architettonici, ingegneristici, cerchi di rompere queste cornici, questi vincoli imposti dall’idea generale di dover piacere, di dover sedurre, di dover sorprendere, quasi ad ogni costo. La poesia è, temo, una delle ultime frontiere che si permette di vivere anche soltanto della propria vocazione e del proprio piacere estetico o stilistico. Senza rincorrere ossessivamente gli stessi traguardi, le stesse piume prestigiose, gli stessi premi. Una delle opere che mi portano a pensare a tutto questo è una poesia-lettera di novanta versi, righe bianche comprese, scritta da Silvia Salvagnini e pubblicata da un atelier editoriale di Siracusa, Verba Volant edizioni. Titolo: Il giardiniere gentile.

Ora, vorrei far finta – credo lo si dovrebbe fare ogni volta – di non saper nulla di Silvia Salvagnini, dove è nata, cosa fa, chi conosce, cosa ha pubblicato prima e cosa ha pubblicato dopo. Entriamo invece candidamente nei suoi versi: «I suoni // sono molto silenziosi // o servono orecchie fenomenali / lobi conchiglia / funicoli auricolari / i suoni sono battiti / d’ali di farfalle / nel farfugliare del cuore // i suoni a volte sono: / il muoversi le foglie / la rugiada appoggiarsi.» Che cosa sta succedendo? La minuta voce del poeta ci accompagna in un mondo di sfumature, dove si ascolta prima ancora di dire. L’immaginazione nasce dal suono, dall’interpretazione dei suoni. Forse non tutte le parole ci aggradano, come quel mieloso «farfugliare del cuore», ma procediamo. Compare una pozzanghera, un flauto (e quindi lo senti), ma poi, fra parentesi ,«se fai silenzio senti il sorriso / che si espande sulla faccia». Una scopa «sfrigola sul marciapiede», e poi compare inaspettato un direttore d’orchestra, proiezione del Magistero del Disordine, di quell’archivio ambulante che ci portiamo appresso dovunque andiamo, e quindi, oltremodo, dovunque scriviamo. Il poeta immagina un direttore d’orchestra che muove l’aria e questa aria sposta particelle che tirano i violini e gli strumenti dell’orchestra. Non sono i muscoli dei suonatori, è un meccanismo plateale, con strumenti che fanno versi d’animale. E infatti: «allora ho capito il direttore d’orchestra / era come un giardiniere gentile / di quelli che fanno diventare / piccoli pezzi di terra il paradiso naturale».

Un collezionista di attenzioni, potremmo dire, che rispetta il filo d’erba, la formica, «ascolta come fanno rumore le foglie d’insalata». D’altronde viviamo un’epoca di poeti mistici, che per schivare la cultura massmediatica fa ritorna all’incanto, a quelle incantatorie mani dipinte sulle caverne.