Visioni

Un gesto d’amore e tradimento

Un gesto d’amore e tradimento

Cinema In sala il primo gennaio il film di Luca Guadagnino è tratto dall’horror di Argento ma non è un remake

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 30 dicembre 2018

C’è un equivoco di fondo. Luca Guadagnino non ha «rifatto» Suspiria; semmai ha ripensato tutto l’universo di Dario Argento a partire dalla riscrittura di quello che giustamente è considerato il capolavoro del regista romano. La differenza è fondamentale. Guadagnino non ha tentato di replicare i segni argentiani che nelle mani degli innumerevoli epigoni sono diventi calligrafismo, quando va bene, pura maniera quando va male. Piuttosto, con una vertigine di folle audacia, ha osato chiamare con il suo nome un film che, stando ai custodi dell’intoccabilità dell’originale, deve restare immobile nell’iperuranio dell’adorazione feticista.

Oggetto di analisi critiche e disamine accademiche, Suspiria di Argento, come accade sovente ai film prima trascurati criticamente e poi innalzati agli onori del culto, lo si vorrebbe ormai irraggiungibile. Guadagnino, invece, chiama Suspiria non (solo) il film che ha tratto dal capolavoro di Argento, ma tutto il complesso di relazioni che lo lega al film e al suo autore.
Cinefilo coltissimo e critico attento, mai banale, è consapevole che il suo film non potrà che ruotare e reggersi su un’assenza. Il film va costruito a partire dalla resistenza dell’originale a farsi modello; usare dunque «l’originale« (che equivale alla verità nel cuore e nella testa dei fedeli argentiani) come verifica critica del suo discorso.

Lontano dal piacere schiettamente citazionista e postmoderno di Jim McBride che osa rifare Godard ma anche dal plagiarismo di Van Sant che nel suo provocatorio annullarsi esalta l’intoccabilità di Hitchcock, Guadagnino compie un’operazione diversa. Il mondo di Suspiria, ormai codificato e vivisezionato, è reinventato nel segno di un paese che non esiste più, la Germania divisa e, in particolar modo, la RDT. Come dire che Suspiria è costruito su due assenze che si fronteggiano: quella dell’originale (del quale il regista sa bene che è lotta vana chiedere di svelare i misteri) e quella di un territorio, la Germania, che dal mito degli espressionismi e dei Grimm è ricondotta nell’agone della storia di un paese diviso in due.

COSÌ, mentre il covo delle streghe è dilaniato da una violenta ansia pre-congressuale (l’elezione della succeditrìce della Markos), la Storia si manifesta in tutta la sua violenza. Così facendo Guadagnino porta alla luce il sottotesto politico dell’operazione del cosiddetto rifacimento rivelando non la genealogia dell’originale, ma l’insieme delle ragioni – politiche e sentimentali – che hanno nutrito il desiderio di realizzare un altro Suspiria. Con il suo film è come se avesse, attraverso gli inevitabili gradi di separazione dall’originale, creato l’esposizione universale delle affinità elettive e sentimentali che lo legano indissolubilmente al mondo di Argento.

Piuttosto che rifare Argento, Guadagnino (ri)porta tutto a casa sua. Ne prende possesso come un amante generoso (e geloso, possessivo) e dichiara così il suo amore come differenza e inevitabile separazione. È il gesto che dichiara l’amore (che non sarà mai soddisfatto). Ed è in questo modo che riesce a fare suo il film. Prendendone possesso in ogni dettaglio, in un vortice di lucida follia di disegno del pensiero del suo film, come se Piero Tosi e Visconti si fossero fusi in un abbraccio ineluttabile. Perché è in questo sacrificio, assoluto e totale, che il film riluce d’un fuoco impensabile: quello di una generosità che è progetto e omaggio, amore e furto, critica e discorso, amore e tradimento.

In questo amore, così travolgente, come di chi tenta con tutte le sue forze di fare ancora una volta sua l’epifania della prima visione di Suspiria, risiede la natura del gesto cinematografico del regista: quello di chi sa che amare, inevitabilmente, è sempre (anche) tradire. E che più ci si avvicina, più si è lontani. E che solo la lacerazione del tradimento può suggellare l’amore più devoto.

IN FONDO Guadagnino può fare sue queste parole di Jean Genet, tratte da Diario del ladro: «Porrò una gran civetteria nel dire che fui un ladro abile. Mai venni colto sul fatto, ’in flagrante’. Ma poco importa, per il mio profitto terreno, ch’io sappia rubare in modo ammirevole: quello che soprattutto ho cercato, è d’essere la coscienza del furto, di cui scrivo il poema: cioè mostro, rifiutandomi d’elencare le mie imprese, quanto devo ad esse nell’ordine morale, quanto a cominciare da esse costruisco, quanto oscuramente cercano, forse, i ladri più semplici, quanto anche loro potrebbero ottenere. ’Una gran civetteria…’: mia estrema discrezione».

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