In una delle prime scene del film Bersaglio di notte (Arthur Penn, 1975) il detective privato Harry Moseby (Gene Hackman) sta guardando una partita di football in televisione, e alla moglie che gli chiede chi stia vincendo risponde: «Nobody. One side is just losing slower than the other» (il doppiaggio italiano muta il senso della battuta). Questa frase, oltre a introdurre il mood crepuscolare della pellicola, sembra riassumere, forse persino troppo didascalicamente, l’amarezza tipica del noir, còlta in una delle opere che meglio rappresentano la stagione della sua rinascita. Contrariamente al cupio dissolvi di Moseby e dei suoi omologhi, questo genere ha manifestato da allora una vitalità costante, che nemmeno oggi dà segni di esaurimento. Gli oltre cinquant’anni di sviluppo, rielaborazione e affermazione di tale filone cinematografico sono esplorati in Cinema noir americano 1960-2020 Pulp, crime, neo-noir (Einaudi «PBE. Mappe», pp. XIII-472, € 30,00) da Renato Venturelli, critico e direttore della pubblicazione «Cinema & Generi».
Nel 2007 Venturelli aveva avviato la sua cartografia del genere con L’età del noir (sempre da Einaudi) rievocando «l’età dell’oro» che va dagli anni quaranta ai sessanta, e ora passa a esaminare l’eredità di quella straordinaria stagione. Si tratta di un’indagine nient’affatto banale, poiché l’onda del noir si è rivelata ben più lunga del suo exploit, tanto da determinare il curioso fenomeno per cui la definizione neo-noir ha assunto una fisionomia pressoché autonoma rispetto al modello originario.
È d’obbligo citare, come punto nodale nel ripensamento del genere, l’articolo Notes on Film Noir apparso su «Film Comment» nel 1972 a firma di Paul Schrader, allora editor di «Cinema», ma che di lì a poco avrebbe inaugurato una straordinaria carriera di cineasta con le sceneggiature di Yakuza (Sydney Pollack, 1974), Complesso di colpa (Brian De Palma, 1976) e Taxi Driver (Martin Scorsese, 1976). In quel saggio, Schrader identificava il noir in uno stile anziché in un genere, riconoscendo che il suo funzionamento procede più visivamente che tematicamente. Queste considerazioni racchiudevano i semi di un’estetica destinata a sbocciare in maniera compiuta con la triade che Venturelli considera fondante per il neo-noir: American Gigolo (dello stesso Schrader, 1980), Brivido caldo (Lawrence Kasdan, 1981) e Blade Runner (Ridley Scott, 1982). Esempi di un «cinema di superfici» – per condensare in un’espressione le riflessioni di Schrader sul suo American Gigolo –, che del meccanismo di detection conservano solo l’essenziale struttura narrativa o l’ispirazione letteraria (nel caso di Brivido caldo, basato sullo stesso romanzo di James M. Cain già all’origine de La fiamma del peccato di Wilder), ma che si affermano per lo stile visivo, per il citazionismo, per i giochi di specchi e simulacri.
Se ai primi anni ottanta si fa risalire il neo-noir come categoria distinta, bisogna però ricordare che la ripresa del genere procedeva già da tempo, da ben prima dell’articolo di Schrader. I critici tendono a leggere gli anni che vanno dall’uscita dell’Infernale Quinlan (1958) di Welles al 1966-’67 come periodo «dormiente» del noir, anche se Venturelli riconosce che in quell’intervallo si stavano preparando le condizioni culturali, espressive e sociali che avrebbero portato alla sua rifioritura. Lo studio system che aveva reso grande Hollywood entrava in crisi, la violenza e il disincanto politico si facevano sempre più strada nella società americana, i nuovi cineasti assorbivano le rivoluzioni linguistiche che venivano dall’Europa sulle ali di Godard, Truffaut, Antonioni e, più tardi, Bertolucci (così come negli anni quaranta la prima ondata del noir aveva raccolto il testimone dell’espressionismo tedesco). La rinascita del genere viene fatta coincidere con il ritorno della figura dell’investigatore privato in Detective’s Story (Jack Smight, 1966) e dell’epopea criminale in Gangster Story (Arthur Penn, 1967), ma già film come Va’ e uccidi (John Frankenheimer, 1962), Il corridoio della paura (Samuel Fuller, 1963) o Contratto per uccidere (Don Siegel, 1964) stabilivano l’atmosfera paranoica che sarà determinante nella rivisitazione del genere da parte della generazione della New Hollywood. E di questa atmosfera saranno imbevuti tanto capolavori più arty e sperimentali come Una squillo per l’ispettore Klute (Alan J. Pakula, 1971) e La conversazione (Francis F. Coppola, 1974) quanto l’ironico Il lungo addio (Robert Altman, 1973) o il classicheggiante Chinatown (Roman Polanski, 1974). Gli autori formati nella controcultura, infatti, scelgono proprio il noir come forma di contestazione (dall’interno) dell’ottimismo hollywoodiano, come rivendicazione di una sorta di «proletariato estetico» contro il modello del kolossal ormai in gran parte declinante e come megafono per riecheggiare le angosce generate dalla storia e dalla politica (dal Vietnam, agli omicidi di King e Kennedy, al Watergate). E quest’anima critica, d’altronde, non si spegnerà nemmeno nei più «stilizzati» anni ottanta, quando il neo-noir incarnerà le ragioni di un cinema «per adulti» nel contesto di «adolescentizzazione dell’immaginario» inaugurato da Guerre stellari e I predatori dell’arca perduta, e rappresenterà gli incubi dello yuppismo in una serie di pellicole che formeranno addirittura un sottogenere a sé (Fuori orario di Scorsese e Qualcosa di travolgente di Demme ne sono due esempi tipici).
L’esplosione del genio di Tarantino all’inizio degli anni novanta, oggetto di miriadi di studi, indica poi una tendenza che andrà sempre più affermandosi nella seconda metà della parabola tracciata da Venturelli: il noir si caratterizza come approdo auteuriste per eccellenza, poiché permette, da un lato, l’ancoraggio a un canone narrativo e a un immaginario consolidati e, dall’altro, una pressoché infinita possibilità di reinvenzione del genere, bilanciata da rischi controllati sul versante produttivo. Non è un caso che questa tendenza si sia estesa, più di recente, anche all’ambito delle serie televisive, in cui alcuni dei prodotti più riusciti, sofisticati e iconici (come The Wire, Breaking Bad, True Detective o, in Italia, Gomorra) si rifanno proprio ad archetipi noir.
Con una celebre battuta, Dino Risi ha dichiarato che per lui «il cinema è un uomo con una pistola e una donna nuda». Pur trattandosi di una boutade, quell’affermazione di uno dei re della commedia riconosceva però quasi un’immediata coincidenza del noir con il racconto per immagini. Leggendo il libro di Venturelli, non sarà difficile accorgersi che questo genere non è più (e forse non è mai stato) soltanto «un uomo con una pistola e una donna nuda», ma senz’altro rimane incredibilmente vicino, quasi identico, al cuore stesso del cinema