Un filosofo, un’oncologa e la relazione terapeutica
SCAFFALE «Il cancro non è un carillon» di Ivan Cavicchi e Maria Giuseppina Sarobba
SCAFFALE «Il cancro non è un carillon» di Ivan Cavicchi e Maria Giuseppina Sarobba
Negli ultimi anni la «relazione terapeutica» come categoria concettuale ha permesso di introdurre nel dibattito biomedico una serie di questioni prima ritenute marginali, tra cui gli interrogativi relativi alla simmetria relazionale ed esistenziale all’interno del rapporto di cura; le emozioni nella loro forma intelligente; la rete sociale che si intreccia attorno a una persona malata e che, inevitabilmente, influenza le sue scelte; la condivisione del processo decisionale. La forza della «relazione terapeutica» è stata saper essere all’occasione luogo di cura, strumento di cura, modello di cura.
COMPIENDO UNA SCELTA ardita, Ivan Cavicchi e Maria Giuseppina Sarobba hanno scelto di presentarla nel loro Il cancro non è un carillon (Dedalo, pp. 336, euro 17,50) come metodo: una relazione è importante non tanto per il modo amabile in cui viene condotta, ma «per la sua capacità di stabilire le condizioni di possesso dei concetti», ossia una comprensione condivisa del ruolo di ogni singolo concetto nella mente dei soggetti – paziente e medico – protagonisti della relazione. È così che essa diventa metodo.
LE PAROLE SONO FLESSIBILI se intese in un contesto e in questo saggio il metodo non è soltanto un procedimento che segue criteri sistematici, perché il cancro non è un carillon che suona sempre la stessa musica: esso va non solo inserito all’interno della relazione terapeutica, ma in un certo senso va in essa plasmato. L’operazione è complessa perché tale è la materia trattata: nessun tentativo di ridurne il significato e la portata, nessun ambizione di sfuggire alla complessità, al contrario. Gli autori augurano buon viaggio a chi sceglie di intraprendere la lettura ed è proprio «lontani da casa» che ci si sente, perché si osservano passo dopo passo nuovi luoghi di incontro tra natura e cultura e tra linguaggi diversi in dialogo.
Che un filosofo e un’oncologa decidano di iniziare a dialogare senza rinunciare ai propri concetti, ma ridisegnandoli insieme avvalendosi della riflessione cognitivista e di quella scientifico-clinica, comporta una sospensione da parte di entrambi delle verità acquisite. L’obiettivo dichiarato è proporre una soluzione pragmatica, dove nuove regole si applicano alla conoscenza oncologica, intesa come meccanismo fondante del trattamento e della cura, ma pur sempre parte di un ingranaggio che comprende la singolarità della persona malata – con la sua finitudine improvvisamente manifesta – e quella del medico oncologo.
Il saggio è diviso in tre parti: la prima problematizza l’apparato concettuale dell’oncologia, indicando dapprima i limiti della sua classica impostazione, illustrando poi le intrinseche potenzialità del suo ampliamento, suggerendo che sia insito nel concetto stesso di cancro un insieme di nozioni e cognizioni che non possono ridursi a quelle bio-cliniche.
NELLA SECONDA PARTE l’accento è posto sul modo di conoscere il cancro, reale solo se sa personalizzarsi e diventare singolare: il «cancro è uguale al cancro» e dobbiamo definire le sue caratteristiche grazie alle conoscenze scientifiche, ma non si può non articolare i criteri di giudizio utilizzati in base alla singolarità dell’«ospite»-paziente che possiede il cancro. Questa constatazione mette in crisi l’oggettivismo metodologico e invita a cercare liberamente e ad avere dubbi: «l’esitazione nella scelta corrisponde a una situazione problematica che incita alla ricerca». Il libro si conclude con la proposta di una razionalità oncologica pragmatica, che giustifichi non solo i mezzi impiegati nella cura, ma anche i fini: perché e come curare questo malato, con questa malattia, in questo momento.
UNA MEDICINA personalizzata coraggiosa, rigorosa e libera.
Quello di Cavicchi e Sarobba è un dialogo complesso perché parte dalla singolarità contestuale e in questa attenzione all’individualità della persona malata e dell’oncologo, del vulnerabile e del curatore, illustra la possibilità di un nuovo luogo di cura: quello della relazione non semplicemente «empatica», il luogo della personalizzazione dell’approccio terapeutico e della problematizzazione delle verità, sulla base di una «rigorosa» umanizzazione della medicina.
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