Il venticinquesimo film di Martin Scorsese è la storia di Frank Sheeran, del suo ruolo nell’assassinio di Jimmy Hoffa, il leader mafioso del potente sindacato dei Teamsters, un film su delitto e castigo, peccato e coscienza, sulla vita e, inevitabilmente, il suo contrario. Storia intima e al contempo affresco del secolo americano, conclude la parabola scorsesiana sulla mafia, quella iniziata mezzo secolo fa, fra cui i primi corti e documentari dedicati a Little Italy. È la logica sintesi della genealogia di questo regista che, in qualche modo, incorpora sia Quei bravi ragazzi che Silence. Un film gonfio di rammarico, di esistenze già vissute e tormento per il male che fanno gli uomini. Capace di raccontare ancora una volta Cosa nostra come metafora dell’hybris americana ma con lo sguardo fisso, stavolta, sulla fine della vita. È anche un film sull’amicizia e sull’inesorabile marcia del tempo che tutto riduce in polvere e contro cui nulla può – nemmeno gli effetti di ringiovanimento digitale.

Impossibile, quindi, non pensare quella riunione sullo schermo di tutti i collaboratori storici di Scorsese – come a una convention di quella generazione di attori e filmmaker che hanno «rifatto» il cinema, con una serie di film che ci hanno accompagnato per mezzo secolo. Un lavoro che, in definitiva, è anche su quei film e sulla comunità artistica a cui Scorsese ha dedicato la propria vita creativa, e che ora contempla dalla piena maturità e celebra con un requiem. Abbiamo parlato con lui della struggente nostalgia che sembra pervadere The Irishman. «Credo che sia così. Ha a che vedere con Bob, Al e Joe (De Niro, Pacino, Pesci) – e con me. Se c’è nostalgia è la nostra, quella che viene dal guardarci e dire: ’toh…Harvey Keitel!’ E non occorre aggiungere altro. Lo guardo e mi torna in mente una cosa che abbiamo fatto 45 anni fa. ’È patetico’, mi dice. E io: ’Piantala. Non dire così’. Diventa come in famiglia. Non scordatevi che in quei primi film c’era anche mia madre. E così è come se fossimo dei vecchi amici che alla fine della vita passano del tempo insieme, con la fortuna di poter creare ancora assieme un film del genere. Davvero straordinario esserci riusciti».

Quello di «The Irishman» è un mondo molto familiare, ma è come se fosse filmato con un obbiettivo diverso.
Credo sia semplicemente la lente dell’età e dell’accumulo delle esperienze, i cambiamenti della vita e della gente che mi sta attorno – e coloro che non ci sono più. Un modo di esprimere una contemplazione, una meditazione sulla vita. Come dice Frank alla sua infermiera: «Non sai che ora è se non quando arrivi alla fine». La storia di The Irishman ci ha permesso di riflettere su questo e spero che la visione possa magari arricchire la vita dello spettatore. Anche se gli attori sono quelli di Quei bravi ragazzi e di Casinò e l’ambiente e ancora quello della malavita non volevo rifare quei film. L’approccio è del tutto diverso. La chiave qui è il tempo e la mortalità, inesorabile. Non è una storia di corruzione politica o di mafia, è una storia di uomini.

Non c’è il glamour che abbiamo visto in alcuni precedenti film infatti….
Credo di aver fatto tutto quello che c’era da fare in quella direzione rutilante, particolarmente in Casinò. Volevo scavare altrove, nella quiete e nel chiaroscuro. E nelle forze oscure della storia. Non si vede mai chi è il responsabile, non sappiamo chi ha ucciso JFK, o Bobby Kennedy e Martin Luther King. Né farebbe forse una differenza ormai. Non lo sappiamo ma abbiamo un’idea di come succedono certe cose – io l’ho imparato quando crescevo nel quartiere guardando certa gente, come conversavano. E la gestualità bastava per capire che stava succedendo qualcosa di grosso. Non parlo di presidenti ora, parlo di gente al bar dell’angolo e il timore che potevano incutere in persone come i miei genitori che erano operai tessili ma che dovevano convivere con quella realtà nel quartiere. La storia di Hoffa mi è sembrata affascinante. Non che sia necessariamente finito come nel film. Di certo ha offeso certa gente che quando diventi un problema si sbarazza di te.

Lei si è trovato al centro di una discussione sul cinema e sul ruolo dei blockbuster rispetto al cinema d’autore…
«Commerciale» non è una parolaccia, ma mi preoccupa che stia scomparendo lo spazio nei cinema per film che parlano di persone. Dove è quello spazio? Quello che vedo è che c’è un’ invasione inarrestabile di film di supereroi. Non che siano necessariamente brutti, anche noi da ragazzi andavamo al Luna park. Quei film mi danno la stessa sensazione – il cinema diventa un parco giochi, va bene. Ma non deve essere a costo di tutto il resto. Certo, i cinema si devono riempire, bisogna fare soldi, lo capisco bene, ma alla fine si parla solo di quelli, dei record al botteghino. Ma cosa ne è dell’arte? Quando dici così il commento è: «Ah, certo è il solito vecchio». Io invece penso ai giovani, ai bambini, cosa gli stiamo insegnando? Anche negli anni 50 c’erano i blockbuster ma li faceva Hitchcock. Erano un’esperienza mozzafiato, un po’ come un Luna park. Ma a differenza dei supereroi quei film ancora oggi trasmettono un’esperienza umana e artistica. Parlano di umanità, di debolezze, dei nostri fallimenti, di conflitti e dilemmi morali. Non solo del buono che arriva e mena il cattivo. Non che non possa venire fatto molto bene anche quello. Ma per arricchire l’esperienza umana i giovani devono imparare a rispettare anche un altro tipo di film, quelli che abbiamo cercato di fare in questi anni e che speriamo di continuare a fare. Senza venire espulsi dai cinema.

Cosa ci vuole per diventare autore di cinema oggi?
La cosa principale credo sia un bisogno di esprimersi creativamente attraverso il racconto visivo. Nel senso di non avere altra scelta: di esservi trascinati al punto di non poter mangiare né dormire, di non poter vivere senza esplorare questo mondo. Sono stati scritti tanti libri ma non tutti sono grandi romanzi. Alcuni scrivono libri brutti, ma non possono comunque fare altro. Così per la pittura, la musica. Quando c’è quella scintilla la devi nutrire. Soprattutto quando cominci ad avere del successo, perché il successo è una benedizione ma potrebbe uccidere il tuo prossimo film a causa di ciò che la gente si aspetta da te. Orson Welles diceva che tutto ciò che occorre sapere su una cinepresa lo puoi imparare in circa quattro ore. La differenza sta in ciò che poi se ne fa, in venti anni di carriera, con magari un successo seguito da tre o quattro film che successi non sono, e che però magari anni dopo vengono considerati classici. Nel frattempo però è una lotta quotidiana, e non si può perdere il proprio entusiasmo.

Si preoccupa delle prossime generazioni?
Non sono un politico ma pur sempre un essere umano, con tre figlie e una nipote. Mi preoccupa ciò che gli stiamo lasciando. Crescendo negli anni 50 e 60 siamo stati testimoni delle lotte al totalitarismo. Penso a film come Un volto nella folla o Quinto potere, in cui personalità televisive diventano improvvisamente potentissime, oppure a …e L’uomo creò Satana, sul processo Scopes contro la teoria dell’evoluzione negli anni 20. Pensavo che fossimo ormai d’accordo su certe cose e potessimo andare avanti. Invece stiamo andando indietro. E credo che siamo tornati indietro perché molti giovani non ricordano, o non sanno. E poi naturalmente c’è la disuguaglianza, e la mancanza di compassione per gli altri, di rispetto per le altre culture. Prima di combattere gli altri dovremmo cercare di imparare qualcosa su di loro, da dove vengono e chi sono. Negli anni 50 e 60 è stato il cinema ad aprirmi il mondo: l’India, il Giappone… Qualunque posto. Mi ha reso non solo curioso, ma anche molto più tollerante nei confronti di culture e modi di pensare diversi.