Ingrao, un esploratore senza confini
Testimonianze Il suo piacere di sedersi ad un bar e osservare la gente che passa. E domandarsi: chi sono
Testimonianze Il suo piacere di sedersi ad un bar e osservare la gente che passa. E domandarsi: chi sono
Pietro Ingrao compie 99 anni. Sta affrontando una lunga vecchiaia, con dolcezza e serenità. Tra i suoi libri, la sua grande famiglia, il suo cinema e la sua curiosità insopprimibile per la politica e le persone.
Ho visto dirigenti comunisti diventare in età avanzata più aspri, recriminatori, scontenti. Pietro pare, invece, voler risarcire la sua anima nel suo ultimo tratto di vita di ciò che la politica non gli ha permesso fino in fondo di vivere: la gratuità delle relazioni, la pausa nell’azione incessante, i sentimenti più intimi, delicati e poetici. È il suo tema ricorrente, esistenziale e politico-filosofico: quello di stare costantemente dentro e fuori la politica, dentro e fuori la «il recinto» delle istituzioni, delle leggi, del potere, dentro e fuori la dimensione pubblica, con la ricerca incessante del «convento», come desiderio di appartarsi, di interrogarsi, di assumere uno sguardo totalmente libero e radicalmente umano.
In verità Pietro è rimasto incollato sempre al suo impegno politico. Per un motivo semplice: esso non è scaturito dai libri, dall’adesione a un’ideologia, da una dimensione esclusivamente razionale. Tante volte lo ha detto: fu la paura che Hitler conquistasse tutta l’Europa a gettarlo «a pedate» nella lotta antifascista, che visse clandestino sulle montagne calabresi. Diventò comunista perché la sua persona non era in grado di accettare quell’esito nefasto: la sua persona, dunque, e non solo la sua ragione ma anche la sua psiche, la sua emotività, perfino la sua corporeità. È stato, pertanto, un groviglio di elementi basici a determinare la sua posizione nel mondo. Quell’insopprimibile sentimento di «rifiuto» verso l’ingiustizia, l’offesa dei forti verso i più deboli, il dolore muto senza appello, la prepotenza metallica che uccide l’umano che c’è in noi.
Un giorno Pietro mi raccontò la sua incapacità di tenere lo sguardo fermo alla Tv mentre scorrevano le immagini dei corpi martoriati dei bambini iracheni, sotto i bombardamenti americani. Da qui la politica: come incessante movimento e tentativo per riequilibrare i rapporti di forza, come strumento semplice e diretto nelle mani degli «offesi» per aprire una speranza di riscatto. Qualche volta mi sono riferito, per spiegare ciò, a una scelta morale. Ingrao mi ha riposto di essere poco in sintonia con un certo eticismo di moda. Combattere è certamente un fare per gli altri. Senza i quali neppure esistiamo. Ma è un fare soprattutto per se stessi. Per placare un sentimento che nel rapporto con certe cose del mondo ti attraversa e ti scuote nel profondo. L’essere comunista per Ingrao è questo posizionamento radicale, alimentato da una scintilla che, di fronte alle novità della storia, in lui si è perennemente riaccesa e illuminata. Tuttavia per questo «anomalo» leader, neppure la migliore politica, il miglior governo, le più democratiche istituzioni possono racchiudere e rappresentare l’immensità dell’umano, l’unicità e l’irripetibilità delle persone. C’è un limite, oltre il quale, inizia il mistero della vita, l’interrogarsi sul senso delle cose, il rispetto inquieto e curioso per ogni vivente, perfino per quello non umano. È lo squarcio di libertà, spaesata ma struggente e produttiva, delle sue poesie, è il disincanto verso ogni illusione o fatica umana, legata al potere e al suo significato alienante. E’ l’esplorazione verso territori sconosciuti e incerti, che faranno di Ingrao l’uomo del dubbio e dell’incessante domanda per capire di più. Chi ha il diritto di sancire una pena? Che legittimità hanno le leggi, le norme, le regole stabilite? Come non si può capire che il soggetto che le emana è esso stesso incerto e fallibile, per la sua natura umana così segnata dalla incompletezza, relatività, imperfezione e casualità? Come si può decidere la pena di morte con spietata assolutezza, che porta il giudice a mimare «Dio», senza alcuno spazio al dubbio e al rispetto del limite di ogni decisione umana? Certe volte Pietro mi confidava quanto gli piacesse (e lo abbiamo fatto qualche volta) sedersi ad un bar e osservare in silenzio la gente che passa. E domandarsi: che ho a che fare io con loro? Quanto li conosco? Quanto posso sapere delle loro esistenze? Che so dei loro mille percorsi che si intrecciano e delle loro speranze o dolori? Una curiosità inappagata verso l’altro, che le categorie della politica possono appagare solo in parte. Ingrao dirigente appassionato ed infaticabile, sarà dunque anche il simbolo di una politica che si sveste di ogni assolutismo tracotante e di invadente onnicomprensività.
Egli, dunque, uomo pienamente immerso nel suo secolo, lo ha attraversato tuttavia con un conflitto interiore. Per molti aspetti nuotando controcorrente, in una posizione scomoda, non pacificata con il dato dominante del ‘900: il sacrificio delle persone in carne ed ossa sull’altare delle ideologie assolute, che non potevano che produrre forme di dominio totalitario, origine di immani tragedie. Questo conflitto è il filo conduttore della straordinaria avventura ingraiana. Pietro non ha mai voluto abbandonare quella parola, «comunista», per nominarsi politicamente. Come se metterla in discussione potesse appannare la nettezza della sua volontà di stare dalla parte degli oppressi. Via via rappresentata da fasi storiche inaccettabili e criticabili ai suoi occhi, quella parola tuttavia ha continuato a significare la massima coincidenza tra il nucleo più profondo della sua persona e la prospettiva del «fare» politico, per renderlo operante nel mondo. Anche nei momenti più tragici della storia del comunismo (come nel ’56) ha scelto di stare da una parte della «barricata»: quella in grado, a sua opinione, di garantire che la partita non fosse definitivamente vinta dalle forze capitalistiche, reazionarie ed imperialiste. Lo ha fatto in questa altalena interiore tra lo stare dentro e fuori le «mura». Il suo fascino deriva da questo contrasto, che gli ha permesso di vedere in anticipo e di guardare più a fondo i movimenti della storia.
Proprio due giorni fa ho svolto una bella iniziativa a Priverno. E ho fatto, in mezzo alle sue terre, lungamente riferimento alla sua persona così fedelmente plasmata dalla natura di quelle zone, che Pietro ama immensamente: con le montagne aspre e rocciose, così simili al suo carattere scarno e tenace; con i paesaggi ampi e solitari che si vedono dall’alto e che suscitano una spiritualità spontanea così vicina al suo animo interrogante; con la pianura che va verso l’apertura del mare: Formia, Fondi, Sabaudia e Sperlonga che nella sua giovinezza ha significato la libertà, la curiosità per le persone e le culture diverse da quelle praticate nella piccola Lenola.
A novantanove anni, Pietro ha ancora i tratti di questa sua formazione antica e moderna, che ha saputo mettere insieme tradizione e innovazione. Così com’è in ogni vera esperienza di avanguardia, che non vuole tramutarsi in semplice sberleffo postmoderno, fragile e caduco.
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