Se, come voleva Fortini, il critico è il diverso dallo specialista, e deve porsi come mediatore non fra le opere e il pubblico ma «fra le specializzazioni, le «scienze» particolari, da un lato, e l’autore e il suo pubblico dall’altro» allora questo saggio di Giacomo Tinelli, intitolato L’io di carta (il Verri edizioni, prefazione di Daniele Giglioli, pp. 163, euro 23) è un esempio paradigmatico di felice esercizio critico.

Al centro, l’emergenza prepotente dell’autofiction nella narrativa contemporanea. Le opere prese in esame sono la trilogia narrativa di Walter Siti (Scuola di nudo, Un dolore normale e Troppi paradisi) e alcuni lavori di Emmanuel Carrère, in particolare L’avversario e Vite che non sono la mia.

LA QUESTIONE dello schiacciamento dell’io narrante sulla voce autoriale non è trattata come un problema solo narratologico ma come un riflesso di psicologia sociale, in cui vengono al pettine nodi complessi della cultura e finanche dell’economia. Qui le «scienze particolari» convocate sono la teoria psicoanalitica del soggetto nella sua versione lacaniana e la teoria sociale e culturale marxista, con frequenti rinvii ad Althusser. Il punto iniziale è l’attuale divaricazione fra io e soggetto; il «fantasma».

Il narcisismo dell’io è divenuto potente traino ideologico della società, prova ne sia il proliferare sui social network di identità posticce e monolitiche. La vetrinizzazione sociale. In questo quadro, il genere dell’autofiction, da intendersi come «autobiografia dell’io», rappresenta un tentativo di rendere conto delle proiezioni fantasmatiche che la prima persona ossessivamente innesca.

SE DA UNA PARTE «la letteratura non astrae dalle dinamiche psichiche e sociali in corso, ma ne esplora le cause» è pur vero che lo fa attraverso una reiterata «collusione» col discorso ideologico, sfruttandone certi meccanismi. Da quest’ambigua complicità deriva il trionfo della prima persona nella scrittura contemporanea.

VENGONO DUNQUE richiamati i tre livelli in cui Lacan articola l’esperienza soggettiva della realtà: il simbolico, l’immaginario e il reale. Nel primo il soggetto si apre al mondo delle relazioni sociali e alle sue codicizzazioni. Sul piano analogico dell’immaginario abbiamo invece miriadi di immagini e icone che diventano materiale di fantasia soggettiva: «L’immaginario è insomma la fantasia che giustifica la direzione del nostro desiderio». Il «Reale» infine prende corpo dalla falla che il simbolico nasconde. È il motore dell’immaginario.

L’IDEOLOGIA IMPERANTE del consumismo fa leva sull’immaginario e si configura dunque come un’esplosiva miscela fra saturazione dell’identità e distruzione del desiderio. La funzione dell’oggetto di consumo è riempire il vuoto del desiderio con «la presenza ubiqua e seducente della merce». L’ingiunzione «devi godere» diventa così tanto onnipresente quanto, per le contraddizioni economiche, sempre più disattesa e frustrante. E la sistematica confusione fra realtà immaginaria e simbolica sfocia infine nel triste paradosso per cui la verità non può più essere rappresentata dalla scrittura. Diventando, alla lettera, oscena.