Un distillato dell’atto critico nel ’900: saggi introduttivi di Cesare Garboli
Critica letteraria «Scritti servili», riedito da minimum fax
Critica letteraria «Scritti servili», riedito da minimum fax
Nel ritratto di Cesare Garboli che Emanuele Trevi disegna in Sogni e favole (Ponte alle grazie, 2018) si ritrova in sintesi l’idea del lavoro artistico del critico letterario: «Ogni opera manifesta la vita, e la vita è una malattia, l’opera è l’ombra del malato, la sua secrezione, la sua macchia umana. L’opera è un volto, una sindone». Una visione assai lontana dal saldo protocollo critico novecentesco di matrice strutturalista, che prescrive una separazione stagna, sotto i ferri del commento letterario, tra il testo e la vita, come a preservare igienicamente l’uno dall’altra.
Eppure Scritti servili, pubblicato alla fine del secolo breve per Einaudi (1989), e ora riedito da minimum fax (pp. 258, € 16,00) con un profilo bio-bibliografico di Raffaele Manica e una postfazione di Giorgio Amitrano, appare – con le sue pagine luminose sul rapporto tra la vita dell’autore e la sua opera – come un distillato dell’atto critico novecentesco: per densità stilistica, profondità di sguardo, selezione del canone.
Nella silloge confluiscono sei saggi introduttivi pubblicati separatamente nel corso degli anni ‘80 e dedicati a Molière, Delfini, Natalia Ginzburg, Penna, Morante e Longhi. Il significato dell’aggettivo «servili», dunque, è da ricondursi anzitutto al carattere paratestuale e di accompagnamento dei saggi, che hanno anche un tono riepilogativo del lavoro degli autori, accresciuto dalla collocazione svincolata dal testo primario in grado di metterne in luce l’autonomia argomentativa e l’intensità ritrattistica.
Emerge così da queste pagine, una sorta di pantheon eteroclito e irregolare, tant’è che il titolo proposto da Einaudi per la prima edizione, Contro-Novecento venne rifiutato dall’autore, che ne scelse un altro quasi antitetico, dove avrebbe trovato vigore la critica in quanto genere autosufficiente e segnatamente novecentesco. Ciò che dà compiutezza al testo, infatti, non è l’uniformità cronologica o di genere degli oggetti osservati, quanto, piuttosto, il modus operandi dello sguardo di Garboli, che coglie una rifrazione tra i dati esistenziali (anche della propria vita, ove, come spesso accade, si sia intrecciata con quella della materia di studio) e quelli letterari, «due ordini di fatti» – si legge nel saggio sulle Opere di Natalia Ginzburg, «sensibilissimi, anche sotto l’aspetto epistemologico, al loro incontro e al loro contatto.» Di questo incontro, il brano sui Diari di Antonio Delfini è forse il testo più significativo: vita e letteratura sono qui in un tale attrito che l’esistenza dello scrittore può ben dirsi frutto delle ferite prodotte dall’opera, tanto è vero che l’aggettivo «sanguinante» ricorre tre volte in poche pagine, riferito sempre al rapporto conflittuale tra immaginario e realtà: «Non è un bel paradosso (non è sanguinante?) che uno scrittore sia posseduto dalla letteratura, ma non quando scrive?».
Il Delfini «“scrittore” era solo il malefico pezzo di vetro in cui si rispecchiava … un personaggio che aspettava … di essere “scritto”». Di questa relazione dialettica non è ammessa, né per Delfini né per nessun altro, alcuna risoluzione pacificante. Garboli era uno «scrittore-lettore» – così si autodefinisce nella nota che precede il libro – che concepiva la conoscenza, scrive Giorgio Amitrano nella postfazione, «come un’elaborazione costante, in perenne movimento, che non mira a solidificarsi in certezze …, un corpo a corpo con i testi che deborda dal discorso critico per invadere il campo della realtà, della vita sua e degli altri».
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