Un diario comunista nell’ora più difficile
Scaffale «Clandestino a Parigi» di Celeste Negarville, per Donzelli. Politica e privato del dirigente Pci in queste pagine scritte tra 1940 e 1943 nella Francia occupata
Scaffale «Clandestino a Parigi» di Celeste Negarville, per Donzelli. Politica e privato del dirigente Pci in queste pagine scritte tra 1940 e 1943 nella Francia occupata
La storiografia sul Pci si caratterizza per una grande ricchezza memorialistica, che non ha avuto eguali in altri partiti comunisti. Molto più rari sono stati invece i contributi diaristici. E proprio da questo punto di vista, il diario di Celeste Negarville, pubblicato in Clandestino a Parigi (Donzelli, pp. 164, euro 19) costituisce, come scrive nella sua bella introduzione Aldo Agosti, un documento straordinario.
ESSO, INFATTI, ci permette di seguire dall’interno il periodo forse più lacerante dell’intera storia del Pci, quello successivo alla firma del patto tedesco-sovietico: la rottura traumatica dell’unità antifascista e la ricaduta nell’illegalità, dapprima nell’agonia della Francia durante la «strana guerra» e poi del suo crollo finale sotto l’occupazione tedesca e il regime di Vichy. Inoltre, proprio questo tipo di fonti è il più adatto per riportare le soggettività comuniste alla dimensione umana di persone reali, ciascuna con la propria storia e la propria individualità, al di là di classificazioni astratte e stereotipate, se non proprio «demonizzanti».
Negarville fu allora chiamato a compiti di direzione e anche a delicate incombenze organizzative e logistiche nell’illegalità, in condizioni di altissimo rischio personale. Di qui l’assenza di ogni esplicito riferimento politico in tutta la prima parte del diario, la cui cifra dominante è la cautela cospirativa. E tuttavia le pagine del primo quaderno trasmettono una sensazione di solitudine e di sgomento che sembra unire la sfera politica e quella privata, pur nella continuità della propria storia e della propria «scelta di vita». Sembra qui potersi cogliere non solo il peso dell’immane tragedia dell’occupazione nazi-fascista dell’Europa, ma anche il trauma e l’assenza di prospettive in cui dopo il rinnegamento della stagione dei Fronti popolari erano stati travolti i partiti comunisti, privati di ogni soggettività e ridotti al ruolo di meri spettatori passivi degli eventi in corso.
RIFERIMENTI POLITICI diretti riemergeranno nel diario solo dopo l’aggressione nazista all’Urss e la riapertura di prospettive di ampio respiro nei movimenti della Resistenza. All’opposto, ciò che prevale per il momento è la dimensione personale di una «vita spezzata» nell’assenza totale di notizie della moglie Nora e della figlia Lucetta, nell’angoscia per la loro sorte, per le rinunce passate e presenti imposte dalla condizione di «rivoluzionario professionale», ma anche nel timore di una definitiva rottura dei legami affettivi e familiari che agita i sogni ricorrenti del clandestino.
Ciò non toglie, tuttavia, che riferimenti politici quanto mai significativi emergano anche da alcune note attinenti alla «sfera privata»: il primo è la rievocazione di un sogno che vede Nora scomparsa nel nulla, forse arrestata e deportata nella «patria del socialismo», il che non poteva che alludere a un’esperienza che lui stesso e la famiglia avevano vissuto in prima persona a Mosca negli anni del «grande terrore»; il secondo riguarda la spersonalizzazione dei rapporti tra i compagni e soprattutto tra i dirigenti del partito, l’impossibilità di stabilire veri legami di amicizia, suscettibili di inquinare il primato assoluto della politica nella «vita interna» dell’organizzazione: il che alludeva al pesante clima inquisitorio affermatosi nel Centro estero sotto la guida di Giuseppe Berti. In tale scenario di grande rilievo appaiono le riflessioni retrospettive, affidate al diario nel settembre 1942, sulla crisi del movimento comunista seguite al patto Hitler-Stalin. È qui che emerge la questione se la politica del Comintern fosse stata giusta nel periodo della «neutralità sovietica» e se «l’identità tra Urss e movimento comunista» fosse stata non già «indispensabile» bensì «nociva» ai partiti comunisti. Note in consonanza con le posizioni assunte al confino da Terracini, che gli sarebbero costate due anni dopo l’esclusione dal partito.
Un altro aspetto rilevante è il legame profondo di Negarville con l’insegnamento di Gramsci. Giovane operaio di Borgo San Paolo, autodidatta, assumerà la lezione gramsciana come autentica norma di vita, dalla prima esperienza ordinovista all’università del carcere, dove acquisì una solida cultura letteraria e una non comune sensibilità musicale. Non meno importante sarà l’attenzione costante ai problemi della cultura e al rapporto con gli intellettuali come componente essenziale del «partito nuovo» nel secondo dopoguerra, come ha testimoniato, al massimo livello, Italo Calvino. Ripercorrendone la biografia di dirigente comunista, ci si imbatte a più riprese in un Negarville favorevole alla pubblicità del dibattito nei massimi organi dirigenti del Pci andando oltre il centralismo democratico, una questione che avrebbe costituito anche nei decenni a venire un baluardo insuperabile. Tenendo conto non solo delle discontinuità e degli innegabili processi di rinnovamento segnati nella storia del Pci dal 1956, ma anche dei limiti che avrebbero continuato a condizionarne la cultura politica, non sembra un «paradosso» l’emarginazione di Negarville dopo l’VIII Congresso: una sorte che egli avrebbe condiviso con non pochi altri, che si erano spinti troppo oltre sull’impervio cammino del rinnovamento del Pci.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento