Un dialogo tra un’artista e una sociologa per provare a capire la «posizione» delle pratiche artistiche nel mondo contemporaneo. È questo il tema di un libro dal titolo Arte, pratica di resistenza. Dialoghi tra una sociologa e un’artista uscito per Meltemi (pp. 144, euro 12) e, non a caso, nella nuova collana «Sociologia di posizione» che si articola a sua volta in due sezioni «Studi e ricerche» per i saggi di più ampio respiro, e «Posizioni» dedicata invece a interventi più brevi e in presa diretta con il dibattito pubblico.

L’intenzione è quindi quella di indagare la posizione critica dei saperi e delle pratiche, e nel caso di questo pamphlet di Veronica Montanino, artista, e Anna Simone, sociologa, quella di esplorare l’arte in relazione alla dimensione sociale e politica, dentro la sfera culturale industrializzata e intorno allo spazio dei femminismi.

E PROPRIO L’ULTIMO dialogo, quello su «Arte, femminile, femminismi», è forse la chiave di volta di tutta l’operazione, giacché punta a chiarire come l’arte sia strutturalmente qualcosa di femminile, contrariamente a tutta la tradizione occidentale moderna che ha pensato alla creatività come a una caratteristica maschile e all’arte come una creazione ex nihilo, producendo il mito del genio che, come la divinità della tradizione ebraico-cristiana, tira fuori dal nulla qualcosa che prima non c’era.

L’arte è invece, sostengono le autrici, una pratica di trasformazione di una materia eterna e increata che grazie all’azione umana, e a quella delle artiste (sempre al femminile e senza più l’iniziale maiuscola), prende continuamente forme diverse trasformando il mondo e sollecitando la percezione umana rispetto alla sua dimensione sensibile. Smontare, rimontare, trasformare è quindi quello che fanno le/gli artiste/i, assemblatori di un materiale sensibile che dà luogo a un «non tutto» – così definisce giustamente l’opera d’arte Anna Simone -, che sfugge sempre alle gabbie d’acciaio della razionalizzazione delle scienze dure e sociali, coltivando senza sosta la dimensione del possibile. E qui sta anche la natura strutturalmente politica dell’arte indagata nel secondo capitolo. L’arte è politica, sostengono Montanino e Simone, in quanto è una forma di resistenza che fa attrito con la tendenza moderna alla riduzione linguistica e politica.

NON È, QUINDI, una forma di ribellione, qualcosa che alla fine viene sempre digerito dall’industria culturale, né una forma di rivoluzione, qualcosa che finisce per rovesciarsi spesso in subordinazione alla parola del profeta che si fa dirigente di partito, ma al contrario, è qualcosa che resiste linguisticamente, sfuggendo in continuazione e interrogando incessantemente chi la fa e chi ne fruisce, contribuendo a rinsaldare un legame sociale fondato sulla dimensione sensibile (tema del primo capitolo).

L’arte, infine, non è comunicazione, ma una pratica poetica per fare mondi e che, proprio per questo, è stata bandita, temuta o usata a scopi ideologici, perché sfuggendo all’unico verso del «logos» può diventare pericolosa per il potere e per l’ordine sociale costituito. Se l’arte, quindi, è una pratica che forza i limiti, non credo che sia necessario preoccuparsi troppo per quello che le autrici definiscono un processo di «deculturazione» di massa che coinciderebbe con il tramonto della parola scritta. Se la cultura occidentale ha privilegiato per secoli una sola forma espressiva, quello che si apre davanti a noi è uno scenario nel quale proprio l’arte e l’antropologia culturale, sono le bussole per orientarsi in un mondo in metamorfosi e sempre più «pan-linguistico».

* Se ne discuterà a Roma domani (Libreria Spazio Sette, via dei Barbieri 7 alle ore 18.00. Con le autrici, intervengono Anna Maria Panzera e Raffaella Perna.