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Emilio Locurcio, il destino amaro

Emilio Locurcio, il destino amaroUn ritratto di Emilio Locurcio

Intervista/Un ricordo dell'autore di «Eliogabalo», album uscito nel 1977 «Non è un caso che fu la vicenda delle Brigate Rosse e di Aldo Moro a mettere fine al disco, perché quello fu un trauma enorme per tutti noi»

Pubblicato circa 3 anni faEdizione del 14 agosto 2021

Per la sua vita di dépense, Eliogabalo divenne una figura assai presente nell’immaginario artistico e letterario: da Stefan George a Arbasino, passando per Artaud. In musica, prima di John Zorn e di Marilyn Manson, a Eliogabalo venne dedicato, nel ’77, un concept album di un musicista che non avrebbe mai più prodotto altri dischi, Emilio Locurcio. Quel disco – che aveva come ospiti Claudio Lolli, Lucio Dalla, Ron, Teresa De Sio – è, negli anni, diventato un album di culto, per la sua qualità originalissima di opera rock profondamente intessuta in quel tempo di sovversione che l’aveva generata.
Eliogabalo imperatore, la trasgressione dei costumi, il rovesciamento carnevalesco della vita. Perché Eliogabalo dimenticò il passato, spazzò via il futuro. Non pensate più al domani, da oggi sarà carnevale. La magia contro la logica, l’incantesimo contro la scienza. La gente scopre che nel cielo quest’anno apparirà una primavera feroce, e si abbandona a una frenesia dolcissima. E un ballerino diventa il capo dei carabinieri.
Locurcio è scomparso nell’aprile di quest’anno, in un’incredibile, tragica vicenda familiare: sono scomparsi nel giro di pochi giorni, lui, sua moglie Luigina Dagostino e infine loro figlio. Lo avevamo contattato lo scorso anno, per chiedergli una testimonianza su Claudio Lolli, su cui si aveva in programma un romanzo-biografia, Siamo noi a far ricca la terra. Lolli infatti cantava, insieme a Dalla, proprio nella canzone manifesto del disco, Eliogabalo imperatore: «Dalle viscere della terra si sprigionarono degli strani vapori, e come per incanto comparvero dei comici e degli attori, che come grappoli d’uva nera fin troppo fermentata zampillavano fuori dai solchi in preda a una gioia scatenata. La lotteria degli zingari indicò Eliogabalo come nuovo imperatore».
Gli chiedemmo come aveva conosciuto Claudio, scoprendo che lo aveva contattato anni prima e gli aveva organizzato il primo tour, in Piemonte, della sua carriera. E poi molte cose su Eliogabalo, e sul perché poi fosse scomparso dalla scena musicale.

Emilio, il tuo contatto era sul sito della tua scuola di teatro. Immaginiamo che l’ispirazione per «Eliogabalo» ti venne da Artaud.
Sì, certo, per me attore Artaud era un’icona. Poi, casualmente, nel ’77 uscì anche il Super-Eliogabalo di Arbasino: era un po’ lo spirito dell’epoca, quello. Non direi però che Eliogabalo fosse musicalmente rappresentativo del ’77. Gianfranco Manfredi lo era, lo era il festival di parco Lambro… Potrei dire invece che Eliogabalo è la metafora del ’77. Volevo provare a raccontare, anche in maniera ingenua, come la vita potrebbe essere diversa se vissuta in un certo modo. Eliogabalo era una figura trasgressiva, e forse questo è l’elemento che mi colpì. Oggi non so se lo sceglierei, non abbiamo bisogno di tutta questa trasgressione ma, credo, di un forte senso della responsabilità. O forse oggi la trasgressione è un’altra cosa, è più sul piano linguistico…

Come nacque quest’opera teatrale e musicale, che potremmo definire un concept?
Sì, era un concept, ma inizialmente si trattava di canzoni slegate l’una dall’altra. Solo che il discografico, Micocci, era riluttante a farmi fare un disco. Sai, lui faceva tanti contratti, per la sua etichetta It, che era satellite della Rca, ma poi per fare i dischi prendeva tempo… Il contratto lo avevo ottenuto per il tramite di Ernesto Bassignano. Fu per convincerlo a farmi fare il disco che ebbi l’idea che teneva insieme le varie canzoni, trasformandole in un’opera rock. Dopodiché, lì a Roma, dove ero andato per fare cinema, stavo facendo un film con Ron – Lezioni private di Vittorio De Sisti -, e grazie a lui conobbi Lucio Dalla, che aveva ottenuto il successo con Com’è profondo il mare. Una sera a casa mia feci sentire loro le canzoni che avevo già confezionate in forma di opera. Loro mi dicono di sì, il giorno dopo chiamo Micocci, che con quel parterre di ospiti – gli parlo anche di Lolli, i cui Zingari felici avevano pure avuto un discreto successo, e di Teresa De Sio, che era da poco entrata in Musica Nova – e accetta. «Lo facciamo uscire per la Rca», dice.

A quel punto Micocci ti dà dei musicisti con cui lavorare per incidere il disco.
Sì, organizzano il gruppo Micocci e Gaio Chiocchio, che nel ’73 aveva fondato con Arturo Stalteri i Pierrot Lunaire. Tra i vari musicisti del disco ci sono anche i Crash, un gruppo progressive che accompagnò Rino Gaetano fino alla sua morte. Rino, anche lui della scuderia Micocci, era molto simpatico, semplice, non avresti detto che fosse un cantautore…

E quindi può finalmente uscire «Eliogabalo. Operetta irrealista».
Fui io a disegnare la copertina, a ispirarmi era stata la copertina di un lp dei Moody Blues, che mi aveva colpito parecchio, e avevo cercato di restituire nei miei disegni la potenza sovversiva delle canzoni. Il disco però ebbe un destino sfortunato. Stava per uscire, era stato già fatto ascoltare alla stampa, addirittura Castaldo aveva fatto una bella recensione su Repubblica, una pagina intera divisa tra Eliogabalo e De Gregori, il disco di Generale. Poi ci fu il rapimento Moro, e la situazione cambiò. Melis, il patron della Rca, dice: «No, questo disco non esce, è troppo schierato, non possiamo sembrare dei fiancheggiatori delle Brigate Rosse». Allora Micocci disse: «Lo tengo io alla It, ne stampo un po’ di copie, lo faccio uscire in qualche negozio…». Uscì un anno dopo, in sordina, che nessuno se ne ricordava più.

E così tu scompari dalla scena musicale. Cosa successe? Fu per questo destino sfortunato del disco?
Sì, anche. Sai, per vent’anni io mi sono sentito anche in colpa, per avere sbagliato obiettivo, riascoltandolo anni dopo mi dissi che lì dentro c’erano cose puerili, che avrebbe potuto essere più secco… Adesso non lo penso più, ho fatto pace con quel disco, che era ben fatto, ben suonato. Però, certo, un po’ affiora questo sentimento di amarezza, perché ci ero rimasto così male per com’era andata, che smisi con la musica. Avevo cominciato a lavorare con lo Stabile di Roma, lo feci per due anni, poi mi trasferii a Parigi, per fuggire. Lì collaborai con un piccolo teatro, studiavo, passavo le giornate nella biblioteca del Beaubourg, quella fu la mia università. Poi tornai a Torino e fondai la mia scuola di teatro, che dura tutt’ora. E fu così che uscii dalla delusione dell’Eliogabalo. Che era stata una cosa importante per me, avevo 22 anni, ci credevo tanto, sia nel disco che nel mondo in cui quel disco aveva preso corpo. Ci credevo che si potesse vivere in modo diverso, lavorare in modo diverso, avere relazioni sentimentali diverse… Non è un caso che fu la vicenda delle Br e di Moro a mettere fine al disco, perché quello fu un trauma enorme per tutti noi. Fu come quando tu credi alle fiabe, credi a Cappuccetto Rosso, e poi arriva qualcuno e la ammazza. Quell’utopia è finita nel sangue. Da quel momento in poi ho incontrato reduci, e quella era una ferita in più, perché quella storia era finita, ma si doveva andare avanti, il discorso non era finito, e invece in troppi erano rimasti ancorati al passato.

E qui ti leghi ancora a Claudio Lolli: il suo album del 1980 si intitolava «Extranei», a segnare questa frattura…
Claudio era davvero una bella persona. Forse uno dei veri poeti della canzone che abbiamo avuto. Persone legate a un’epoca in cui la cosa più straordinaria era che anche se non ti conoscevi, ma intravedevi dei minuscoli elementi di empatia, nasceva un rapporto, basato su un’apertura di credito illimitata, anche nel campo della musica, dove era facile fare le cose insieme agli altri artisti, c’era questo piacere di dare e di prendere dagli altri. Claudio era espressione di questa disponibilità totale. Un altro generosissimo era Giorgio Lo Cascio. Dopo gli anni di piombo tutto questo è scomparso

LA BIOGRAFIA. UN TORINESE A ROMA
Emilio Locurcio nasce nel 1953 a Torino. Dopo il liceo frequenta la scuola del Teatro Stabile torinese, e comincia a comporre le prime canzoni. Tra i primi concerti ci sono, nel 1972, quelli ad aprire gli spettacoli del giovane Claudio Lolli, da lui stesso invitato in un mini tour piemontese. Insieme a loro, in quelle serate, un altro cantautore torinese, Enzo Maolucci. Poi Locurcio si trasferisce a Roma, dove ottiene delle parti in alcuni film: La nottata di Tonino Cervi, I ragazzi della Roma violenta di Renato Savino, Sturmtruppen di Salvatore Samperi. Sul set di Lezioni private conosce Ron, e poi Lucio Dalla. Nel ’77, dopo aver firmato un contratto qualche tempo prima con la It di Vincenzo Mecocci, registra l’album Eliogabalo. Operetta irreale, a cui partecipano Lolli, Ron, Dalla e Teresa De Sio. Dopo l’insuccesso commerciale del disco, troppo connotato politicamente secondo la Rca, Locurcio si trasferisce a Parigi, per poi tornare due anni dopo a Torino, dove aprirà una scuola di teatro e recitazione, la Maigret & Magritte, e si sposerà con Luigina Dagostino, fondatrice della Casa del Teatro ragazzi e del Teatro dell’Angolo. (m.ro.)

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