Delle cose che popolano il mondo reale, abbiamo una conoscenza sommaria, che ci consente di districarci nella vita normale. Del corpo nostro, o di quello altrui, abbiamo una conoscenza un po’ più raffinata: per esempio, sappiamo che l’eccesso o la mancanza di cibo incidono sulla massa corporea. Di questa «massa» facciamo peraltro esperienza diretta, quando urtiamo qualcosa o quando dobbiamo salire le scale. Per quanto strano, tuttavia, un concetto così familiare come quello di «massa» è, in verità, estremamente difficile da catturare. La proprietà di avere una massa – tipica dei corpi materiali – riposa infatti su un’interazione molto astratta e particolare, che – a detta del «modello standard» della fisica contemporanea – sussiste al livello sub-atomico. Grazie a questa interazione, alcune particelle elementari vengono «deformate», diminuiscono la loro velocità e – con ciò stesso – acquistano una massa; quest’ultima, lungi dall’essere allora una caratteristica originaria del mondo materiale, sembrerebbe essere il risultato di una «deformazione»: è dunque una caratteristica emergente della natura, piuttosto che un suo tratto fondamentale.
Il concetto di massa si trova così a oscillare tra un’accezione ordinaria, intuitiva, e una accezione formale, molto più astratta, lontana dal senso comune. La prima è fissata nell’etimo della parola, che la associa al termine greco máza (pane d’orzo, pane ordinario) o all’ebraico matzah (pane azzimo, non lievitato); entrambi i termini la riconducono esattamente al mangiare, alla trasformazione del cibo in massa corporea. L’accezione teorica, invece, già traspare nella discussione – prima antica, poi medievale – che ruotava intorno a tre nodi teologici fondamentali: la creazione, la dissoluzione e la transustanziazione.

Oltre il peso e il volume
Trasformati in dogmi del credo cattolico, questi nodi hanno tutti a che fare con il principio metafisico della conservazione della materia. È da questioni di questo tipo che ha preso storicamente corpo il concetto di massa come quantitas materiae, sganciato da quello di volume e di peso, un concetto formulato compiutamente da Egidio Colonna Romano, discepolo di Tommaso d’Aquino.

E però: interpretare la massa come «quantità di materia», a guardare bene, costituisce soltanto uno slittamento del problema: trasforma l’interrogativo «cos’è la massa?» nell’interrogativo «cos’è la materia?». Già, cos’è la materia? Non è un caso, allora, se su un concetto all’apparenza così elementare si sono esercitate le menti migliori del pensiero scientifico moderno e contemporaneo: Keplero, Newton, Mach, Einstein, Bethe e Higgs, fra gli altri. E ben si capisce come il concetto di massa possa costituire «un argomento troppo complesso e irto di difficoltà, per essere trattato in corsi di fisica elementare», come ebbe a notare una sessantina di anni fa il fisico e storico della scienza Max Jammer, in un denso volume dal titolo Storia del concetto di massa nella fisica classica e moderna, che non risparmiava infatti al lettore dettagli formali e complessi riferimenti teorici.

Si cimenta in un’analoga impresa, alla luce delle ultime acquisizioni della fisica delle alte energie, Jim Baggott, già autore di un fortunato volume sul «bosone di Higgs» e di un altro sulle «origini» della storia naturale, dal big bang all’homo sapiens. Tuttavia, contrariamente a Jammer, Baggott si dà in Massa L’origine della materia e dell’atomo dai greci alla meccanica quantistica (traduzione di Franco Ligabue, Adelphi, «Biblioteca scientifica», pp. 287, € 32,00) una regola esplicita: «nessuna equazione o formula nel testo, con più di due, massimo tre variabili, più una costante». Confrontata con quella adottata a suo tempo da Jammer, questa regola espositiva, spinge a riflettere sui mutamenti della divulgazione scientifica, in cinquant’anni almeno di storia. Non è soltanto questione di allargare il pubblico dei potenziali lettori, in ballo c’è una questione di merito, che riguarda in profondità lo sviluppo degli specialismi, il background di competenze richiesto dalla scienza contemporanea, rispetto a mezzo secolo fa. Se i tecnicismi del libro di Jammer erano alla portata di uno studente dei primi anni di un corso scientifico universitario, la matematica che è implicita nella fisica dei nostri giorni richiede anni di specializzazione, e una competenza specifica in settori particolari.

Un modello intuitivo
A ben vedere, una precondizione del genere riguarda tutte le scienze speciali, non solo la fisica, si capisce allora che la divulgazione, anche di ottima qualità, rinunci a pretendere competenze formali da un pubblico di media cultura.
Cosa ne è della massa, in un contesto del genere? Come possiamo immaginarla, con un bagaglio di intuizioni ordinarie? Se il concetto (medievale, e dei primi moderni) di «quantità di materia» spingeva a pensare che la massa di un corpo fosse riducibile alla somma dei suoi componenti (anche questi dotati di massa), la fisica contemporanea ci consegna l’idea di «una massa senza massa», come recita il penultimo capitolo del libro di Baggott. Una massa fatta di cosa, allora? Di astrazioni, verrebbe da dire. Così la pensava Willard Van Orman Quine, già nel 1976, quando la fisica contemporanea si accingeva ad assumere la sua forma attuale: «le cose che una teoria ritiene che ci siano sono i valori delle variabili della teoria, e sono questi che si sono venuti risolvendo nei numeri, e in oggetti affini, e alla fine negli insiemi puri».

In questa rarefazione della materia, l’abilità del divulgatore sta nell’escogitare modelli e immagini di tipo intuitivo, presi dall’esperienza ordinaria, che consentano di orientarsi in un reticolo di concetti non familiari, stimolando la curiosità del lettore. L’idea che il «campo di Higgs», agendo su particelle prive di massa, la rallenti, le «deformi» (in senso metaforico) e le doti finalmente di massa costituisce – appunto – un modello puramente intuitivo. Non si tratta soltanto di capire, meglio di come lo abbiamo già immaginato, o intuito, in cosa consista questa deformazione: si tratterebbe in verità di capire, più a fondo, ciò che non abbiamo ancora capito. Ovvero, come scrive Baggott alla fine del suo volume, «abbiamo imparato un sacco di cose nuove, ma siamo anche molto consapevoli di ciò che non sappiamo e non possiamo spiegare».