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Un classico ritratto di signora

Un classico ritratto di signora

Intervista Paolo Franchi autore di "Dove non ho mai abitato" in sala dal 12 ottobre, un film di rigorosa malinconia e sfuggente attrazione erotica

Pubblicato circa 7 anni faEdizione del 7 ottobre 2017

Ecco finalmente qualcosa di completamente diverso nel nostro cinema: sono tanti gli elementi che potranno catturare lo spettatore nell’ultimo film di Paolo Franchi «Dove non ho mai abitato» nelle sale dal 12 ottobre, perché sviluppa temi da tempo dimenticati dal nostro cinema come raccontare un’attrazione erotica, esplorare in profondità sottili lati del carattere, rendere le ambientazioni borghesi specchio di turbamenti, narrare con andamento rigoroso e tenere sotto traccia un mare in tempesta. Paolo Franchi è autore di film (La spettatrice, Nessuna qualità agli eroi, E la chiamano estate) che lasciano profonde tracce a volte anche disturbanti, ma non passano invano.
Francesca (Emanuelle Devos) non ha voluto seguire la tradizione del padre, architetto famoso ed ha sposato un finanziere francese abbandonando la professione e Torino. Quando torna si trova inaspettatamente a seguire i lavori di una villa insieme al braccio destro del padre (Fabrizio Gifuni) e scopre qualcosa di sé che aveva cancellato.
Cosa ti ha affascinato di quel mondo dell’alta borghesia così poco affrontato oggi dal nostro cinema?
Mi interessava come vivono i personaggi, il sentimento con tutti gli stati d’animo che il sentimento comporta, con tutte le paure, le fragilità,la messa in discussione di se stessi, i rimpianti. In particolare il personaggio di lei che ha un’etica molto profonda e nello stesso tempo una fragilità, talvolta anche una conflittualità interna. Devo dire che per il personaggio di lei mi ha molto ispirato la lettura dei romanzi di Henry James, un «ritratto di signora» estremamente composito e complesso dove ci sono tanti elementi che sembrerebbero rendere quest’essere infelice, ma tutto sommato prigioniera di se stessa. Michelle Devos è molto cechoviana, non solo perché ha fatto molto Cechov a teatro, ma per il suo sguardo, come un personaggio di altri tempi, occhi un po’ persi, misteriosi. Era proprio l’attrice adatta. Gifuni rispecchia benissimo il personaggio dell’archietto con le sue durezze e nello stesso tempo fragilità interna. «È molto lontano da me» ha detto Gifuni, ma io lo trovavo giusto per questo misto di insicurezza e forma, come se la forma lo potesse proteggere.
Pensi che il personaggio di lei sia centrale?
È una storia d’amore, quindi entrambi lo sono con le loro impotenze, con le loro somiglianze. Trovo molto interessante anche il rapporto che lei ha con il marito. È un personaggio che tutto osserva e tutto determina, è come se in qualche modo avesse in pugno questa donna, seppure così apparentemente remissivo, silente, in realtà è quello più forte. Ci sono rapporti all’interno dei personaggi piuttosto complicati, come quella sua ingenuità, incapacità di instaurare un rapporto di confidenza con la figlia, tanto da diventare lei figlia dello stesso marito, come se avesse bisogno di essere rassicurata. Mostrare tutte le insicurezze di questo personaggio secondo me è abbastanza inusuale nel cinema. Anche se l’amore può non essere vissuto fino in fondo, in qualche modo quell’esperienza li arricchisce, dà loro la possibilità di decifrare meglio la realtà.
Dal titolo sembrerebbe che uno dei personaggi chiave potrebbe essere «la casa». Non si tratta di semplice ambientazione.
È una metafora la casa che loro costruiscono per gli altri, nel senso che è più facile assistere alla felicità altrui che non alla propria. C’è anche un altro tema: non è così facile essere felici e non è così facile accettare la felicità. Talvolta essere infelici ci dà la possibilità di stare meglio, paradossalmente. Le persone fragili, complicate che hanno avuto determinati rimpianti non se l’aspettano la felicità. La paura che attanaglia questi due personaggi fa parte di un senso di inadeguatezza verso la realtà, verso le cose che si meritano. Forse sono persone che non si amano troppo.
Ritornando alla prima domanda, della classe borghese, non è che io sono stato affascinato dalla borghesia, la borghesia poi è un’entità astratta, dentro la borghesia trovi qualunque cosa, come dentro ogni classe sociale. Sono stato interessato all’umanità di questi due personaggi, in particolare dal personaggio di Francesca, nei rapporti difficili, complessi, teneri, amorosi e odiati con il padre, con il marito con la figlia e la passione con questo architetto che molto le somiglia.
Sono molto pochi i film sugli architetti
Riguardo alla professioni dell’architetto non sono un ammiratore di questa categoria di persone, però trovavo che costruire qualcosa sia una proiezione. Quando costruisci per gli altri talvolta non riesci a costruire qualcosa di molto solido per te stesso. Non a caso questo architetto costruisce ville meravigliose per coppie innamorate o forse no, perché la coppia di giovani sembra celare qualche malinconia, qualche ombra.
Il cinema italiano è molto più attratto dagli ambienti popolari, si deve risalire ad Antonioni o al cinema francese o al cinema degli anni ’70 per ritrovare un’ambientazione di alta borghesia.
Io non sono un grande fruitore di cinema in generale e lo dico senza snobismo, non sono soprattutto fruitore di cinema italiano, senza polemiche. Vedo film vecchi, i film degli anni ’60 sono molto più moderni di quelli attuali. Per quello che vedo c’è un ritorno al neorealismo certamente importante, ma non significa che approfondire dei sentimenti o lo stato d’animo, la psicologia, il vissuto sia un discorso non politico. Il rischio è quello di diventare un po’ retorici, perché la politica non sta nel contenuto, ma soprattutto nel linguaggio. Avere realizzato un film volutamente classico, quasi postmoderno nella sua plasticità perché ha un andamento narrativo lineare, estremamente verista, con degli echi (almeno nella mia ispirazione) ai racconti di Cechov o ai romanzi di Henry James, a certo cinema americano degli anni ’70 o a certo cinema francese degli anni ’80 non è che lo fa vintage, ma è un modo di proporre qualcosa di differente, con tutto il rispetto per un cinema che può essere anche di denuncia. Posso accettare questo da chi conosce profondamente questa realtà, ma quando diventa una retorica di persone che questo mondo lo conoscono molto poco e lo fanno quasi sfiorandolo con una sorta di paternalismo borghese, mi irrita per un rispetto verso l’altro. In fondo noi non possiamo raccontare che quello che siamo anche noi. Quindi non vorrei essere definito un regista borghese per aver raccontato degli stati d’animo.
Non hai sempre fatto film di questo tipo
Uno fa anche film che gli piacerebbe vedere al cinema. A me piacerebbe vedere un film sentimentale ma nel senso più nobile del termine, perché il sentimento appartiene a tutti noi, a qualsiasi categoria, a qualsiasi classe. Il sentimento, i rimpianti, le fragilità, le insicurezze, le nostre impotenze. Proprio Antonioni, ma non c’entra nulla con il film, raccontò esistenzialmente nel Grido, uno dei suoi film più belli, sentimenti che appartengono anche alla classe operaia. Tutti gli stati d’animo che contemplano un sentimento non sono necessariamente legati alla borghesia. La scelta dell’architettura è stata certamente un’interessante metafora di partenza perché ho letto alcune biografie di architetti come Mio amato Frank che è un romanzo sulla vita di Frank Lloyd Wright. Questi architetti sono sempre personaggi molto bizzarri, molto esotici, idealisti e affascinanti. Costruiscono per gli altri, ma la loro vita personale non è altrettanto facile, così come per gli psichiatri, specie nel rapporto con i figli. Non è un film sugli architetti ma su esseri umani e su personaggi che hanno difficoltà ad abbandonarsi al sentimento, analizzare la psicologia l’emotività di personaggi che tanto si assomigliano, il senso del tempo che passa, dei treni che perdi, delle strade che avresti potuto percorrere.
Lo stile del film, il ritmo del racconto danno l’impressione netta di trovarsi di fronte a qualcosa di nuovo nel nostro cinema
Avevo tanta voglia ma non sapevo se sarei riuscito a farlo, di fare una storia classica e anche quando giravo mi sentivo insicuro. Credo che fare un film classico sia la cosa più difficile: non c’erano solo i due protagonisti, c’era il padre, la coppia di innamorati, il marito di lei, la fidanzata di lui e non volevo che diventassero spalle. Costruire narrativamente una storia così complicata andando a scavare nel loro animo è la cosa più difficile ma è quello che io ho voglia di andare a vedere al cinema.
Con questo non dico che ora il cinema d’autore stia diventando sempre troppo uguale a se stesso, non vorrei essere scambiato per un qualunquista, una persona non politicamente coinvolta nei problemi della società. Il cinema è anche linguaggio e riprendere il linguaggio del tempo passato, il linguaggio classico da un certo punto di vista è sperimentale. Questo è un film dei giorni nostri ma l’ho fatto come se non avesse un tempo, più dolce, cechoviano, malinconico, meno ossessivo dei miei film precedenti che avevano punte patologiche, c’è stata anche una parentesi psicanalitica con E la chiamano estate, tanto criticato al festival di Roma nonostante avesse vinto. Questo è stato sperimentare qualcosa molto più grande di me anche dal punto di vista produttivo.
Nessuna qualità agli eroi era un film impietoso, questo è un filmm pieno di pietas, caldo, malinconico, carezzevole nella rinuncia.
Un po’ malinconica come è anche Torino, una volta grande e che in seguito ha assunto toni più sbiaditi
Torino è sempre dietro l’angolo, si intravede, non la vediamo quasi mai. Nei miei film non c’è un approccio realistico verso l’attuale. Marco Ferreri per parlare di un grande regista oggi dimenticato, riusciva a costruire città fantasma, girava un pezzo di città da una parte e poi dall’altra, è chiaro che erano altri tempi.
l’ambientazione è molto atratta: non volevo dare un tempo una cronologia, un anno a questa storia che poteva appartenere a trent’anni fa o adesso. Se non astrazione qualcosa di sospeso in una narrazione realistica e lineare. Così come i costumi che non appartengono all’oggi. Ho cercato di applicare questo concetto: quando fai un film contemporaneo bisogna regolarsi per i costumi come se stessi facendo un film in costume.

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