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Un classico per l’estate

Un classico per l’estate"Gli amori di una bionda" di Milos Forman

Libri MASSIMO GIRALDI GABRIELE FERZETTI TABULA FATI Non lasciatevi ingannare dalle apparenze. Sorridente, garbato, sornione, fino a che punto ci si può fidare di Gabriele Ferzetti? Nel panorama nazionale dei ruoli […]

Pubblicato circa 7 anni faEdizione del 19 agosto 2017

MASSIMO GIRALDI

GABRIELE FERZETTI

TABULA FATI

Non lasciatevi ingannare dalle apparenze. Sorridente, garbato, sornione, fino a che punto ci si può fidare di Gabriele Ferzetti? Nel panorama nazionale dei ruoli maschili, in lui il bell’amoroso diventa quasi subito l’uomo di mezza età. Non a caso s’impone sui trenta, quarant’anni con “Le avventure di Giacomo Casanova” di Steno, “L’avventura” di Michelangelo Antonioni, “A ciascuno il suo” di Elio Petri, “C’era una volta il West” di Sergio Leone, quattro capolavori in bilico tra genere e autorialità, costume e business, che suggeriscono i tratti di un personaggio braccato dalle donne, disponibile al tradimento, incapace di sottrarsi all’ambiguità. Il suo segreto? Avviarsi con piglio sicuro verso età più mature, come confermano “Bisturi, la mafia bianca” di Luigi Zampa, “Il portiere di notte” di Liliana Cavani, “Sette note in nero” di Lucio Fulci, “Quartetto Basileus” di Fabio Carpi, “Giulia e Giulia” di Peter Del Monte, “Io sono l’amore” di Luca Guadagnino. Compensava le intemperanze del carattere con l’aggressività della voce, una delle più belle e riconoscibili del cinema italiano, più di una volta, ahimè, doppiata. (pp. 97, euro 10,00).

CHRISTIAN UVA

IL SISTEMA PIXAR

Il MULINO

Se pensate che si tratti di un panorama prevalentemente tecnico della storia della Pixar che, nata dalla Lucasfilm, è poi diventata di proprietà della Disney, siete fuori strada. Le vicende di una grande industria creativa, di un marchio che ha rinnovato il cinema d’animazione contemporaneo, s’intreccia continuamente con le componenti narrative, estetiche, ideologiche dell’immaginario americano. Come confermano “Toy Story”, “Alla ricerca di Nemo”, “Gli incredibili”, “Cars”, “Inside Out”, che rimandano a John Lasseter, considerato da molti il nuovo Disney. Ma forse è ancora più interessante il caso di “Ribelle-The Brave” che sembra far eccezione alla tendenza della Pixar di dare vita a racconti radicati nella contemporaneità e nel contesto culturale statunitense. Qui invece siamo nella Scozia del 1066 in cui la principessa Elinor viene trasformata in orso da una pestifera strega. Non si tratta del medioevo approssimativo della tradizione disneyana, ma di uno scenario ricostruito (digitalmente) con scrupolo filologico. Non solo la “scottishness” è fin dalle origini un aspetto importante dell’identità americana. Quanto all’orso, una delle icone più popolari, si trova persino nella bandiera della California. (pp. 190, euro 13,00).

ALBERTO SCANDOLA

GREED

MIMESIS

L’altro giorno ho visto un film bellissimo che nessun altro vedrà mai”, dichiara Harry Carr nel gennaio 1924. “Si tratta della versione ancora integra di ‘Greed’ di Stroheim. È un lavoro magnifico, ma è lungo 45 rulli. Non oso pensare cosa ne faranno. È come ‘I miserabili’. Ci sono episodi che sulle prime paiono non c’entrare nulla con la storia, poi dodici o tredici rulli dopo se ne rimane soggiogati. Per il suo crudo, terribile realismo e per la sua straordinaria maestria è il più grande film che abbia visto. Ma non so cosa ne sarà dopo che l’avranno ridotto da quarantacinque a otto rulli”. Come erano andate effettivamente le cose lo stesso Erich von Stroheim lo aveva capito molto presto: “All’epoca in cui cominciai il film, lo slogan della Goldwyn Company era: Contano soprattutto l’opera e l’autore. Così ottenni pieni poteri per fare il film. Purtroppo, mentre lavoravo al montaggio, la Goldwyn divenne Metro Goldwyn Mayer e il loro nuovo slogan fu: Il produttore innanzi tutto. Mayer mi disse che mi dovevo considerare come un piccolo impiegato di una grande fabbrica di pantaloni. Che, oltre tutto, dovevano andare bene a nonno, padre e figlio!” (pp. 218 + Dvd, euro 24,00).

FERNANDO DI LEO

LE INTENZIONI 1950 – 1960

SABINAE

Fernando Di Leo continua a sorprendermi. Non solo con “I ragazzi del massacro”, “Milano calibro 9”, “La mala ordina”, la straordinaria trilogia milanese in cui tra fine sessanta e inizio settanta il maestro di Foggia incontra con risultati da applauso il maestro di Kiev, il grande Giorgio Scerbanenco. Ma ora anche con una raccolta di poesie che risalgono al decennio precedente. Già la sua frenetica attività di sceneggiatore western, rigorosamente non accreditato, per Sergio Leone, Duccio Tessari, Sergio Corbucci, Florestano Vancini, Domenico Paolella, Giorgio Capitani, sconcertava parecchio, avallando il sospetto che c’entrasse qualcosa con la nascita dello spaghetti-western. Ma le poesie? Non ne sapevano nulla neppure i suoi amici più vicini, neppure Pier Paolo Capponi, che in apertura ricorda i versi di Dylan Thomas, tanto amati anche da Fernando: “Nella mia arte scontrosa o mestiere/Praticata nel silenzio notturno/Io mi affatico a una luce che canta/Non per pane o ambizione/ Non per il superbo che s’apparta/Dalla luna che infuria io scrivo/Su queste pagine di spuma/Ma per gli amanti, per le loro braccia/Attorno alle angosce dei secoli,/Che non pagano lodi né salario/E non si curano del mio mestiere o arte”. (pp. 119, euro 10,00).

ORIANA FALLACI

L’ITALIA DELLA DOLCE VITA

RIZZOLI

Quando esce nel febbraio 1960, il successo di “La dolce vita” è enorme. Con un polverone di polemiche, interpellanze parlamentari, insulti, esorcismi. Forse perché nessun altro film di Federico Fellini tocca come questo il nervo scoperto dei grandi cambiamenti in corso. Sulla soglia dei sessanta, sembra rappresentare con pochi altri titoli il congedo dal dopoguerra, avviando le svolte del nuovo decennio. Nelle recensioni a caldo la parola che ricorre di più è “affresco”. Le esperienze nei giornali umoristici, nell’avanspettacolo, alla radio, gli consentono di condividere la vitalità sottopelle delle pratiche basse, senza contare l’apporto antiromanzo di Flaiano. Nei confronti di un film così complesso, magmatico, sfuggente, qualcuno – mi viene in mente padre Arpa che traccia nell’aria, con grandi e stravaganti movimenti delle mani, gli imperscrutabili disegni dello spirito – tenta di alzare il tiro fino a insospettabili altezze. Puntando sul finale, quando all’alba lo sguardo di Marcello si è scrollato di dosso le angosce della notte, va incontro alla liquidità dell’esistenza, pronto a misurarsi con il bene e il male senza giudicare. Nel passo di elfo con cui esce fuori dal fotogramma c’è la leggerezza di chi affronta il nuovo giorno. (pp. 360, euro 20,00).

SERGEJ M. EJZENṦTEJN

WALT DISNEY

CASTELVECCHI

C’è una splendida foto dell’estate 1930 di Sergej che stringe la mano a Topolino, forse ancora più bella e allarmante di quella in cui è a braccetto con Walt Disney. Sbarcato da poco negli States, i grandi studios hollywoodiani lo deludono. Neppure con le dive va d’accordo. Il film commissionatogli dalla Paramount non si farà mai, ma l’incontro con Topolino e con Disney, “il più interessante regista americano”, lascerà il segno. Non c’è che da restare ancora una volta sbalorditi di fronte al genio di Ejzenštejn che dieci anni dopo il suo viaggio americano scrive un bellissimo studio su Disney, in cui considera Topolino “la più grande conquista estetica dell’America”: ”I film di Disney, senza rivelare le macchie solari, giocano essi stessi sullo schermo terrestre come macchie solari luminose. Riflettono, riscaldano e non si lasciano catturare. Chi vorrà affondare in Disney le zanne dell’analisi più ordinaria resterà a bocca asciutta. E tuttavia quest’arte è magnifica e allegra, scintilla di forme ricercate e brilla di una purezza accecante. Gioca sempre sull’’impossibile. Disney è stato, sullo schermo, ciò che era stato Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll negli anni ’70 del XIX secolo”. (pp. 140, euro 16,00).

A cura di ANGELO SIGNORELLI

MILOṦ FORMAN

BERGAMO FILM MEETING

Quali sono i progetti irrealizzati del grande regista ceco? Il primo è nel 1958 “Il nostro gruppo ha vinto”, tratto da un racconto di Josef Ṧkvorecky. La storia di un gruppo jazz, che durante la guerra partecipa a suo modo alla resistenza, per il suo tono antimilitarista non passa in censura. Nel 1966 “Arrivano gli americani” è la vicenda dell’ultimo orso del monte Tara nei Carpazi. L’orso, molto vecchio, probabilmente sta per morire. Per fare un po’ di soldi, gli agenti della Forestale ceca decidono di “venderlo” ai cacciatori occidentali per una battuta di caccia. Un ricco americano si aggiudica la partita, ma nel frattempo l’orso attraversa la frontiera polacca. Ma il progetto verrà abbandonato. “Bobby Fischer contro Boris Spassky” nel 1977 s’ispira alla partita del ’72 tra i due grandi scacchisti, che sembra un’allegoria della guerra fredda. Nonostante l’interesse di Peter Falk, non se ne fa nulla. “Il campeggio infernale” del 1999 è la storia di un americano obeso che sogna di diventare un lottatore di sumo. Il progetto più impegnativo è nel 2005 “Le braci”, tratto dal romanzo dello scrittore ungherese Sándor Márai. Nonostante l’accordo con Sean Connery e Klaus Maria Brandauer, il progetto va in fumo. Peccato. (pp. 158).

UMBERTO CALAMITA, CLARA STROPPIANA

TERRA DI CLASSE

IL LAVORO DEI CAMPI TRA HOLLYWOOD E BOLLYWOOD, I SOVIETICI E CINECITTÀ

FALSOPIANO

Quando nel settembre 1948 esce “La terra trema” di Luchino Visconti, nessuno si accorge che l’incontro con i pescatori colti nella loro vita quotidiana, l’immersione totale nella realtà di Aci Trezza approda a un grande romanzo di singolare spessore antropologico. Solo qualche anno prima Carlo Levi con “Cristo si è fermato a Eboli” aveva svelato il mondo sommerso della Lucania, le condizioni di miseria ma anche i riti, le abitudini, le superstizioni, gli spiriti notturni del mondo contadino. Se nel ’45 la “rivoluzione contadina” auspicata dal medico-scrittore rischia di sembrare provocatoria, nei decenni successivi è rilanciata dallo scenario afroasiatico e latinoamericano, mentre il libro diventa un classico. Soltanto nel 1979 Francesco Rosi riuscirà a portarlo sullo schermo. Quando Ernesto De Martino nel ’52 ne scrive, l’apprezzamento nei confronti del neorealismo è fuori discussione. Ma non esita a bacchettare i cineasti fermi al pittoresco che ignorano il ruolo della nascita, dell’amore, dell’infanzia, degli animali, della malattia, della morte nella ideologia rurale. Il mondo contadino come occasione mancata del cinema italiano postbellico? (pp. 191, euro 20,00).

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