Un circuito virtuoso tra pulsioni e marxismo
Scuola di Francoforte Occultati nel ventennio postbellico per opportunismo politico e teorico, questi saggi miravano a introdurre nell’orizzonte filosofico del marxismo altre discipline, e soprattutto la lezione di Freud, per potenziare la capacità di lettura critica del presente
Scuola di Francoforte Occultati nel ventennio postbellico per opportunismo politico e teorico, questi saggi miravano a introdurre nell’orizzonte filosofico del marxismo altre discipline, e soprattutto la lezione di Freud, per potenziare la capacità di lettura critica del presente
La vicenda editoriale dei saggi di Horkheimer titolati, in due volumi, Teoria critica è singolare: scritti tra il 1932 e il 1941 e pubblicati sulla rivista dell’Istituto francofortese per la Ricerca Sociale, contengono una delle pietre miliari del pensiero della Scuola di Francoforte. Vi si trova, tutto squadernato, il pensiero della prima fase della teoria critica, che si concluse con la guerra mondiale, quando la visione dei francofortesi subì una radicalizzazione e un approfondimento il cui prodotto venne raccolto nella Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno, datata 1947.
Intenzionalmente dimenticati nel ventennio postbellico, questi saggi si dovrebbe piuttosto dire che furono nascosti e occultati. Come ha raccontato Habermas molti anni dopo, nel periodo postbellico dell’Istituto francofortese (una fase caratterizzata, non va dimenticato, dalla guerra fredda e da un possente anticomunismo in Germania occidentale), le annate d’anteguerra della Rivista per la Ricerca sociale (Zeitschrift für Sozialforschung), contenenti i saggi horkheimeriani, erano relegate in una cassa custodita nelle cantine dell’Istituto, alla quale era sconsigliato avvicinarsi, quasi fosse materiale radioattivo. Horkheimer non gradiva che si leggessero i testi che contenevano il suo contributo al marxismo critico, sia per ragioni di opportunità (non voleva che la sua istituzione apparisse troppo politicizzata e «comunista») sia per motivi teorici: aveva infatti compiuto un percorso che (approdato a una sorta di «teologia negativa») lo aveva portato molto lontano dalle sue tesi degli anni trenta.
Verso la fine dei sessanta, però, il movimento degli studenti – famelico di marxismi eterodossi – cominciò a riscoprire i tesori nascosti della teoria critica: la Dialettica dell’Illuminismo, anch’essa fino a quel momento dimenticata, e i saggi di Horkheimer. E così, dato che questi testi cominciavano anche a circolare in edizioni pirata, il filosofo tedesco si decise nel 1968 ad accontentare il suo editore Fischer e a far ristampare quei materiali, specificando nel sottotitolo che si trattava di «una documentazione». Ovvero di un documento d’epoca, rispetto al quale andava evitata ogni indebita attualizzazione. Ma la documentazione era anche un po’ parziale; mancavano infatti proprio i testi più politici, estremi e radicali degli anni 1939-1942 – Gli Ebrei e l’Europa, Lo Stato autoritario, Ragione e autoconservazione – rispetto ai quali le resistenze di Horkheimer alla riedizione erano ancora più forti. Comunque, i due volumi di Teoria critica uscirono in Germania e furono tradotti anche in italiano dalla Einaudi, nel 1974; oggi tornano disponibili grazie a una coraggiosa iniziativa editoriale presso Mimesis (nella collana «Teoria critica» diretta da Lucio Cortella, pp. LV-690, euro 38,00) con una penetrante introduzione di Alessandro Bellan, validissimo studioso della teoria critica e del pensiero dialettico, il cui lavoro esce postumo: l’autore è infatti scomparso prematuramente nel settembre del 2014, a soli quarantotto anni.
Quanto ha potuto scrivere testimonia assai bene la sua passione intellettuale per il pensiero critico, e soprattutto per i francofortesi della prima generazione, latori di un messaggio di radicalità che non si trova più, dice Bellan, negli sviluppi ulteriori di cui Habermas è l’esponente più significativo.
A chi abbia la pazienza di seguirne l’itinerario, questi scritti di Horkheimer consentono di ripercorrere la formazione della originale prospettiva della Scuola di Francoforte, di cui Horkheimer è stato il leader indiscusso. Molto chiaro, l’intento che persegue non ha eguali nel panorama del marxismo tra le due guerre: l’obiettivo è quello di riattivare il potenziale conoscitivo racchiuso nel pensiero di Marx attuando una decisa svolta teorica. Si tratta, dunque, di rideclinare il marxismo come ricerca sociale interdisciplinare, capace di interloquire alla pari con i saperi più avanzati del Novecento. In questa prospettiva Horkheimer traccia il quadro nel quale si dovrà inserire il lavoro dei suoi molti collaboratori: Friedrich Pollock si occuperà delle trasformazioni degli assetti economici; Leo Lowenthal svilupperà una critica sociale della letteratura; Adorno, non ancora centrale nell’organigramma dell’Istituto, traccerà le linee di una sociologia della musica; Marcuse supporterà Horkheimer sul terreno più squisitamente filosofico. Un ruolo di primissimo piano è svolto da Erich Fromm (lo psicoanalista freudiano che poi si allontanerà progressivamente dalla Scuola) poiché tra le convinzioni più radicate di Horkheimer c’era quella che non si potessero comprendere le dinamiche e le pulsioni delle masse novecentesche senza dotarsi di una nuova psicologia sociale materialistica, sviluppata attraverso una appropriazione critica del pensiero di Freud.
L’indagine psicologica, molto presente nei saggi horkheimeriani, costituisce un anello essenziale per rispondere alla domanda di fondo che anima tutta la ricerca della Scuola di Francoforte: come è stato possibile che grandi masse, comprendenti ampi settori della popolazione lavoratrice, anziché sostenere le forze politiche che appoggiavano i loro interessi e la loro emancipazione, abbiano ceduto alle seduzioni della propaganda totalitaria, consentendo la vittoria del regime nazista e degli altri totalitarismi europei? Le pulsioni autoritarie, il culto del capo, la disponibilità a perseguitare i deboli e i diversi, insomma tutti quegli elementi su cui i fascismi hanno fatto leva, devono essere indagati e compresi con strumenti che non appartengono all’originaria cassetta degli attrezzi marxista. Bisogna mettere al lavoro la teoria freudiana delle pulsioni e le decisive intuizioni sulla psicologia delle masse elaborate dal fondatore della psicoanalisi.
Ma anche l’orizzonte filosofico ereditato dal marxismo va ripensato e rimesso in movimento. Una delle mosse decisive, da questo punto di vista, è la geniale invenzione di una nuova etichetta. Mentre il nostro Gramsci, scrivendo in carcere negli stessi anni, e affrontando problemi simili, ridefinisce il marxismo come «filosofia della prassi», Horkheimer lo reinquadra sotto la parola d’ordine «teoria critica». Certamente, come nota Bellan nell’introduzione, questa scelta terminologica risponde anche a motivazioni «politiche» di prudenza tattica: l’approdo dei francofortesi, nella seconda metà degli anni trenta, sono gli Stati Uniti; e sarebbe stato certamente molto difficile che la Columbia University (dove l’Istituto si collocò) ospitasse un gruppo di ricerca esplicitamente qualificantesi come marxista.
Nella geniale scelta di Horkheimer, però, c’è anche molto di più: ripensare il marxismo come «teoria critica» significa, per dirla in poche parole, rimetterlo sul binario giusto: rompere con i dogmatismi e le ortodossie che condizionavano in modo nefasto il marxismo tra le due guerre e mostrare che ciò che di esso era veramente irrinunciabile stava nella capacità di lettura critica del presente: questa è la fondamentale indicazione che proviene da Horkheimer, e questa è anche la ragione, credo, per la quale, a molti decenni di distanza, la parola d’ordine «teoria critica» (soprattutto nell’universo anglofono, come critical theory) funziona ancora quale catalizzatore di molte e vivaci energie intellettuali.
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