Un cineasta e il suo archivio
Il Libro Esce la prima monografia su Grifi, di Annamaria Licciardello
Il Libro Esce la prima monografia su Grifi, di Annamaria Licciardello
Mentre la rassegna milanese Filmmaker dedica una retrospettiva ad Alberto Grifi, ecco uscire per Falsopiano una monografia sul videofilmmaker romano, scritta da Annamaria Licciardello, che di Grifi è stata collaboratrice e che ha tutte le carte in regola per poterne parlare. Ma la domanda da porci subito è: come mai si continua a parlare molto di Alberto Grifi e perché è necessario continuare a parlarne? Innanzitutto perché questa attenzione serve in parte a risarcirlo dell’indifferenza che lo ha accompagnato quando era in vita e poi probabilmente perché la scoperta e riscoperta del suo immaginario resta ancora una nebulosa, se pensiamo che solo qualche tempo fa è stata ripristinata e riproposta la versione originaria di Anna (durata: oltre 10 ore), e se pensiamo che il corpus delle sue opere è ancora da sistematizzare e da rieditare. Grifi ha infatti non solo prodotto moltissimo, ma ha sempre ritenuto i suoi film opere «aperte» su cui rimettere le mani, opere da interrogare continuamente, poiché il passato non passa mai e ciò che lui – già con sguardo premonitore – ha colto oltre 50 anni fa, è ancora utile per poter leggere criticamente il nostro presente. Per questa ragione cercare l’urtext di alcuni suoi film, secondo Licciardello è impresa disperata, aggiungendo: «Il cinema di Alberto Grifi è per me indissolubilmente legato al suo archivio, parlare dell’uno vuol dire parlare dell’altro. Il cineasta e il suo archivio personale formano un corpo unico, sia perché letteralmente ci ha vissuto in mezzo, sia perché è rimasto materia viva nelle sue mani (un «archivio vivo» come si usa dire in gergo archivistico): non solo è stato aggiornato e organizzato per raccogliere i materiali via via prodotti, ma è stato fino alla fine territorio da scavare, da cui partire o ripartire».
Ciò detto il contributo di Licciardello, proprio per la coerenza e per la precisione del suo approccio, risulta filologicamente corretto e, dunque, indispensabile, per poter orientarsi in un territorio comunque impervio, come è quello della sperimentazione. È forse per questa ragione che la struttura de Il cinema laboratorio di Alberto Grifi è lineare, perfino didattica, ripartita per decenni. All’interno dei tre capitoli (i Sessanta, i Settanta, dagli anni Ottanta ai Duemila) l’autrice ha poi operato una suddivisione in paragrafi che corrispondono ai vari film, la cui analisi critica, acuta e densa di informazioni, è comunque accompagnata da un’accurata ricostruzione biografica e del contesto storico (culturale e artistico) in cui ha operato Grifi, lasciando spesso parlare direttamente l’autore.
Accanto all’ormai classico Verifica incerta (realizzato insieme a Gianfranco Baruchello) affiorano così film meno noti degli anni ’60 come il «diario filmato» In viaggio con Patrizia (Patrizia Vicinelli, la poetessa cui Grifi è stato legato per un periodo) o il bellissimo Orgonauti, evviva! Il passaggio al videotape e la realizzazione di opere come Anna, Parco Lambro e Lia, resta l’esperienza centrale degli anni ’70, anche in questo caso Licciardello contestualizza molto bene l’ambito più vasto del video in cui il lavoro di Grifi si inserisce. E poi vengono gli ultimi decenni, dove Grifi ha molto ripensato il suo lavoro precedente ma anche prodotto altro.
C’è infine un’ultima motivazione che ci obbliga a vedere, rivedere e analizzare l’opera di Grifi: tener desta l‘attenzione non solo su una stagione gloriosa, quella dell’underground italiano, ma anche su un modo di fare e vivere il cinema che, mai come oggi, è uno strumento di resistenza nei confronti di chi continua a pensare che esiste ancora «il cinema», con tutti i desueti meccanismi di produzione, distribuzione e fruizione ad esso legati che Grifi ha sempre abborrito.
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