Alias

Un cineasta e il suo archivio

Il Libro Esce la prima monografia su Grifi, di Annamaria Licciardello

Pubblicato quasi 7 anni faEdizione del 9 dicembre 2017

Mentre la rassegna milanese Filmmaker dedica una retrospettiva ad Alberto Grifi, ecco uscire per Falsopiano una monografia sul videofilmmaker romano, scritta da Annamaria Licciardello, che di Grifi è stata collaboratrice e che ha tutte le carte in regola per poterne parlare. Ma la domanda da porci subito è: come mai si continua a parlare molto di Alberto Grifi e perché è necessario continuare a parlarne? Innanzitutto perché questa attenzione serve in parte a risarcirlo dell’indifferenza che lo ha accompagnato quando era in vita e poi probabilmente perché la scoperta e riscoperta del suo immaginario resta ancora una nebulosa, se pensiamo che solo qualche tempo fa è stata ripristinata e riproposta la versione originaria di Anna (durata: oltre 10 ore), e se pensiamo che il corpus delle sue opere è ancora da sistematizzare e da rieditare. Grifi ha infatti non solo prodotto moltissimo, ma ha sempre ritenuto i suoi film opere «aperte» su cui rimettere le mani, opere da interrogare continuamente, poiché il passato non passa mai e ciò che lui – già con sguardo premonitore – ha colto oltre 50 anni fa, è ancora utile per poter leggere criticamente il nostro presente. Per questa ragione cercare l’urtext di alcuni suoi film, secondo Licciardello è impresa disperata, aggiungendo: «Il cinema di Alberto Grifi è per me indissolubilmente legato al suo archivio, parlare dell’uno vuol dire parlare dell’altro. Il cineasta e il suo archivio personale formano un corpo unico, sia perché letteralmente ci ha vissuto in mezzo, sia perché è rimasto materia viva nelle sue mani (un «archivio vivo» come si usa dire in gergo archivistico): non solo è stato aggiornato e organizzato per raccogliere i materiali via via prodotti, ma è stato fino alla fine territorio da scavare, da cui partire o ripartire».
Ciò detto il contributo di Licciardello, proprio per la coerenza e per la precisione del suo approccio, risulta filologicamente corretto e, dunque, indispensabile, per poter orientarsi in un territorio comunque impervio, come è quello della sperimentazione. È forse per questa ragione che la struttura de Il cinema laboratorio di Alberto Grifi è lineare, perfino didattica, ripartita per decenni. All’interno dei tre capitoli (i Sessanta, i Settanta, dagli anni Ottanta ai Duemila) l’autrice ha poi operato una suddivisione in paragrafi che corrispondono ai vari film, la cui analisi critica, acuta e densa di informazioni, è comunque accompagnata da un’accurata ricostruzione biografica e del contesto storico (culturale e artistico) in cui ha operato Grifi, lasciando spesso parlare direttamente l’autore.
Accanto all’ormai classico Verifica incerta (realizzato insieme a Gianfranco Baruchello) affiorano così film meno noti degli anni ’60 come il «diario filmato» In viaggio con Patrizia (Patrizia Vicinelli, la poetessa cui Grifi è stato legato per un periodo) o il bellissimo Orgonauti, evviva! Il passaggio al videotape e la realizzazione di opere come Anna, Parco Lambro e Lia, resta l’esperienza centrale degli anni ’70, anche in questo caso Licciardello contestualizza molto bene l’ambito più vasto del video in cui il lavoro di Grifi si inserisce. E poi vengono gli ultimi decenni, dove Grifi ha molto ripensato il suo lavoro precedente ma anche prodotto altro.
C’è infine un’ultima motivazione che ci obbliga a vedere, rivedere e analizzare l’opera di Grifi: tener desta l‘attenzione non solo su una stagione gloriosa, quella dell’underground italiano, ma anche su un modo di fare e vivere il cinema che, mai come oggi, è uno strumento di resistenza nei confronti di chi continua a pensare che esiste ancora «il cinema», con tutti i desueti meccanismi di produzione, distribuzione e fruizione ad esso legati che Grifi ha sempre abborrito.

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